Poco fuori Piacenza, alla confluenza fra il Trebbia e il Po, c'è un posto molto particolare; di quelli che proprio bisogna andarci con qualcuno del posto. È la chiesa, credo di recente riconsacrata, del Camposanto Vecchio di Borgotrebbia. Borgotrebbia è un sobborgo popolare della città, di quelli che si guadagnano soprannomi vecchio stile: lo chiamano, infatti, Tobruk. La cosa mi ricordava un po' gli Sciangai e le Coree di Livorno, mentre ci s'inoltrava lungo una strada improbabile, alle cinque d'un pomeriggio scuro eppure afoso e gli uccelli volavano bassissimi a presagir acquate. Il mare, appunto; e non soltanto perché molti di quegli uccelli erano gabbiani che, oramai, in pianura sono quasi stanziali. La chiesa è sul ciglio della strada; subito dietro di essa parte una stradina che si perde, si perde, si perde. Persone a piedi coi cani, altre che fanno jogging; un enorme ramarro giallo cangiante sul verde spiacciacato sull'asfalto. E via verso un presupposto argine, camminando, camminando.
La chiesa però si vede sempre, come una specie di faro. Più te ne allontani, cercando l'argine e i fiumi che forse ci sono, o forse no, e più te la senti dietro. Quasi camminasse insieme a te. Ma sono, probabilmente, suggestioni di un pomeriggio di fine estate; la storia di quella chiesa un po' la conosco, addirittura ne hanno parlato tempo fa a Chi l'ha visto?, ed è una storia di quelle che, normalmente, mettono qualche brivido. Per anni è rimasta sconsacrata ed è servita, sembra, ai culti satanisti di mezza Piacenza. Ci facevano, dicono, le messe nere. Ora l'hanno rimessa in sesto, sul cancello della canonica a fianco c'è pure un fiocco azzurro e si sente il pianto di un bambino piccolo, da una finestra. C'è anche un club di qualcosa, non mi ricordo se di scacchi, di canottieri o di amanti dei pissarei e fasö; la normalità, insomma, ha ripreso il suo corso, e sarà anche meglio così. L'argine cammina i suoi passi, qualcuno muore il ramarro e sotto il cartello d'una qualche foce hanno fatto il nido le vespe. Sassi mentre si scorge un'acqua d'una golena, e il cielo si abbassa ancora coi suoi voli. Tutto, sì, nella normalità; anche se è una normalità che scopro poco a poco col mio andare sgraziato. Tutto, se non fosse per Poldo.
Poldo è quel ragazzo che si vede lassù in cima alla chiesa; e che ce lo abbiano messo, qualche secolo fa, è comprensibile. È la chiesa d'un cimitero. Ora, d'accordo le suggestioni, la strada che si perde, l'argine e il cielo basso; però, io, quando vedo un Poldo coi suoi ossi incrociati, zìc e zàc, all'improvviso ridivento Etrusco. Da queste parti non so quanto siano abituati agli Etruschi, e ognuno ha il suo modo di mostrar rispetto e considerazione a Sora Morte; gli Etruschi, generalmente, ci si mettono a chiacchierare e possibilmente pigliandola un pochino per il culo. "Ehilà, bell'òmo!", gli ho fatto; e quello aveva l'aria un po' non so come dire.
Bisogna anche capirlo. È stato messo lì a terrorizzare e non dubito che, fra cimiteri, dìi e sàtani, fra mesti e lugubri convogli, fra ragionieri di S.Rocco al Porto e bariste di Agazzano che adoravano il Demonio, fra jogghisti della domenica e coppiette appartate, abbia assolto egregiamente al suo compito senza preoccuparsi che, in questi tempi moderni, esistono le radiografie e come diventeremo dopo crepati lo si vede perlomeno qualche decina di volte ancor da vivi. Ossi. Ecco, io quando vedo uno scheletro con gli ossi incrociati prima di tutto lo saluto, poi lo chiamo Poldo e infine mi ci metto a conversare per un paio di minuti; passato il primo momento di smarrimento, ho visto appunto l'ossicino destro farmi un cenno di saluto e poi una vocina che mi diceva: finalmenteeeee...
Siccome, nonostante tutto, sono molto educato, gli ho chiesto come andava e se non s'annoiava un po' lassù, sempre a fare spavento e ad incombere sui passanti; gli ossi, allora, hanno fatto un gesto inequivocabile. Gli sarebbe piaciuto un sacco, mi ha detto, scendere almeno un'oretta a sgranchirsi, farsi una passeggiata e persino un bagno di nascosto nel fiume. Invece nisba; sempre lì a camposantare, a satanare, a farsi riconsacrare, per non parlare dell'osteoporosi sempre in agguato. Intuiva che non sono di queste parti, e non soltanto per la parlata; però qualche volta s'era anche divertito a far sentire certi scricchiolii sinistri nelle domeniche sere di nebbia fitta, oppure un batter di denti, o altri giochini che non se li immaginano né il sor parroco, né gli sdiavolatori. Però, e gli ho creduto all'istante, era contentissimo che lì accanto fosse nato un bambino. Magari sarebbe sceso volentieri a giocherellare, ma immaginatevi voi la mamma che va a dargli la pappa e lo trova in compagnia del teschio Poldo con gli ossicini.
"Senti, ma non è che mi porteresti a fare un giro...?", mi ha chiesto. Assai dolente e compunto gli ho detto che non ci sarebbero stati problemi, a condizione che scendesse da solo da lassù. Soffro di vertigini anche se monto su un muretto, figurarsi in cima a una chiesa; minimo cascherei di sotto andando seduta stante a tenergli sì compagnia, ma in forma del tutto simile alla sua. Poldo e Poldone. Un po' deluso mi ha detto che capiva, ma che magari la prossima volta, se ripasso...
Già, se ripasso. Ci ripasserò senz'altro, prima o poi. E so già cosa chiedergli, quando scendera facendo clàc clàc un martedì pomeriggio di primavera, mentre trombano le drosofile e fioriscono gli equiseti. Gli chiederò di resuscitare il ramarro. E ce ne andremo a fare quella benedetta passeggiata, magari lui sa bene come raggiungere il grande fiume nella pianura e ci facciamo pure un bel bagno in un posto tranquillo. Glielo ho promesso, e se per caso qualcheduno si stupisse di vedermi in compagnia d'un teschio, tireremo dritti. E ci faremo anche delle gran risate; assumerò, giunti a una pioppeta, un'aria solenne e gli dirò: Fratello, ricordati che devi vivere! E lui: Sì, sì...mo' m'o'o segno.