Chiamerò la prima tentazione della metafora. La grande nave che affonda, la zattera della Medusa, i ricchi puniti con la catastrofe, la nave-Italia ed altre cose del genere.
La seconda, anche più forte, è quella del paragone. Stabilire un confronto con le carrette del mare, quelle che affondano stracariche di immigrati clandestini nella generale indifferenza. Nessuno si ricorda nemmeno più della Kater i Radës. Centinaia e centinaia di morti del tutto ignorati, che scappano a bordo di imbarcazioni generalmente prive di beauty farm, di piscine e di ristoranti.
Per riassumere: per un transatlantico di superlusso si fa tanta camorra, scomodando persino il Titanic (inevitabile, a 100 anni esatti dalla tragedia) e non tenendo presente che in quel naufragio ci furono 1500 morti in mezzo all'Oceano Atlantico, non a due metri dall'isola del Giglio. Per le centinaia di morti che si hanno ogni anno nel canale di Sicilia e dovunque nel Mediterraneo non si scomoda proprio nulla. Anzi. Se ne fa, casomai, un problema di ordine pubblico. Nessun collegamento continuo, nessuna rassegna dei siti esteri, nessuna diretta Twitter, nessuna polemica sulle cause, niente. Io dico però che bisognerebbe resistere a queste tentazioni, che pure vengono quasi naturali, e cercare invece di andare un po' oltre.
Sulla Costa Concordia non c'erano dei miliardari da “punire” in modo divino, e non c'erano nemmeno i poveri emigranti della terza classe. C'erano 4234 persone che avevano invariabilmente pagato un migliaio di euro per andare a divertirsi e a illudersi per una settimana di essere esclusivi. A bordo di quella nave, come di tutte le altre consimilari, c'erano centinaia di famiglie di quelle in crisi, provenienti da mezzo mondo. Di quelle che faticano per arrivare in fondo al mese, ma che non “vogliono rinunciare”. Mille euro? E che saranno. Avessi voluto, e se di fare una crociera me ne importasse qualcosa, me la sarei potuta permettere persino io. Così come a bordo della Herald of Free Enterprise c'erano i lettori di un tabloid inglese che avevano vinto un viaggio promozionale in Olanda. Anche quella nave si adagiò su un basso fondale: 193 morti. 6 marzo 1987. Si capovolse su un fianco l'Araldo della Libera Impresa, portandosi dietro centonovantatré poveracci che leggevano una spazzatura di destra basata sui capriccini dei regnanti, sulle corna dei calciatori, sul forcaiolismo allo stato puro e sul razzismo più becero. Qualcuno ha mai sfogliato il Sun?
A bordo della Costa Concordia si trovavano, quindi, persone normalissime. La tentazione della metafora confonde la nave coi suoi passeggeri. Navi come la Costa Concordia non sono il “tempio del lusso”, non sono il megayacht di Khashoggi o di Onassis. Sono, casomai, il tempio dell'illusione temporanea. Per la miseria di mille euro offrono a coloro che lo desiderano (o a coloro cui viene fatto desiderare) l'immagine che si ha generalmente del “lusso”: proprio per questo sono gigantesche e esagerate. A modo loro, però, sono al tempo stesso estremamente proletarie. Sono popolate da persone anonime, che ricevono un nome soltanto in caso di catastrofe. Sono l’ologramma del lusso e della ricchezza venduto ad un prezzo abbordabile. Assieme a loro, l'equipaggio. Lavoratori.
Non c'è proprio nessuna metafora da mettere in atto. Quella dell'Italia che affonda assieme al “suo Titanic” è, fra tutte, la più ridicola. Non c’è nessun Titanic, a parte le dimensioni della nave. Così come non c’è proprio nessun paragone da fare, almeno nei termini in cui dev’essere saltato in testa a parecchi. Nelle condizioni attuali, non c’è da domandarsi perché il barcone degli immigrati clandestini periti in mare non riceva le stesse “attenzioni” e la stessa considerazione di una nave da crociera; ci sarebbe, invece, da ripercorrere una strada a ritroso. Tornare indietro nel tempo fino al punto in cui delle persone sono state spogliate, anche nella terminologia, delle caratteristiche umane. Fino al punto in cui queste persone sono state trasformate in “immigrati” e “clandestini”, in capi senza nome. Bestiame. “Annegano 200 clandestini” come “annegano 200 bovi”. Fino al punto in cui a queste persone, prive di documenti, non è stato più riconosciuto nemmeno il diritto di avere un nome da ricordare. Fino al punto in cui è stato deciso di considerarle una massa di invasori da eliminare, respingere e rinchiudere in strutture di concentramento. Fino al punto in cui, nel sentire comune, sono cominciate ad affiorare frasi del tipo “ributtiamoli a mare”. Il naufragio, atto antichissimo di esercizio della solidarietà indistinta, diviene un sistema di eliminazione. Il suo prodursi in determinate occasioni è visto con sollievo e favore, perché toglie di mezzo bestie pericolose e feroci, potenziali criminali, ladri di lavoro e quant’altro. È in quel punto nel tempo e nella storia che si ferma ogni tipo di paragone possibile.
E allora è necessario prendere atto di alcune cose. Ad esempio, che tra i passeggeri naufragati sul Costa Concordia ve ne siano molti che, almeno una volta nella loro vita, hanno pensato o espresso tali cose a proposito dei clandestini naufragati e sbarcati, magari su un’isoletta del Mediterraneo del tutto simile a quella alle cui coste la gigantesca nave da crociera si sta pericolosamente avvicinando in una notte di gennaio. Così come, su qualche carretta terrificante e stracolma di disperati in fuga da povertà, fame e guerre, molti staranno pensando quanto piacerebbe loro che, una buona volta, affondasse una bella nave di ricchi portandoseli via tutti. Invece toccherà alle loro imbarcazioni. Toccherà a loro, che per pagarsi quel viaggio hanno peraltro speso ben più del biglietto per la crociera con le piscine, i ristoranti e i beauty farm. Tutto quello che avevano, spesso.
A bordo delle carrette, schiavi. Caporalati, mercatini, rosarni, piazze dalmazie, CIE, bossifini, degradisicurezze, rabbiorgogli, lampeduse, borsoni e preghiere; e vaglielo tu, caro, a spiegare che dio non esiste. Io non credo in dio, ma a volte lo ritengo un lusso che mi è stato riservato. Ben più lussuoso dei marmi e delle luminarie della Costa Concordia. Intanto, in acque profonde, incrocia la Costa Discordia, e costa parecchio. A tutti quanti.
A bordo della gran nave da crociera, schiavi. Ragionieri, viaggidinozze, camerieri, famiglie di Andorra, pensionati, ballerine, geometri, macchinisti, qualche anarchico in incognito ma dotato di euro mille; e vaglielo tu, caro, a spiegare che sono schiavi lo stesso, anche se giocano a far da padroni. Vaglielo a dire che quella nave l’hanno costruita gli operai della Fincantieri, ah sí, ma dai! Quelli che bloccano le stazioni?
A proposito di anarchici, una volta ce n’era uno che aveva passato la vita in galera. Si chiamava Belgrado Pedrini, e mentre era in cella scrisse una canzone in uno strano linguaggio che sembrava venire di peso da un lontano passato. Era, invece, il 1967. Dal 1967 chi conosce quella canzone si chiede cosa siano le torme di schiavi adusti. La canzone si chiama Il galeone. Parla di una nave di schiavi che remano e che periscono tra i flutti. Bisognerebbe tornare indietro nel tempo, già. Fino a quel punto in cui abbiamo perso la coscienza che, su quel Galeone, ci siamo tutti quanti, e schiavi. Sia che il galeone sia un’orrenda bara galleggiante che, in un certo momento, smette di galleggiare trascinando a fondo tutto un carico di senzanome privi di documenti; sia che esso sia una nave sfavillante che, in un certo momento, smette di sfavillare e piomba nel buio trascinando a fondo tutto un carico di senzanome muniti di documenti. Ed anche la ciurma, che sia o meno anemica. Dal comandante fino all’ultimo degli inservienti.
Tornare indietro fino al punto in cui abbiamo smesso di considerarci tutti quanti alla deriva sull’oceano. Alla deriva, ma pronti a cercare perlomeno di farvi fronte. Tutti uguali in preda ai flutti. Senza nessuna “illegalità”, senza nessun “clandestino” e anche senza nessun biglietto perché il mare è libero. Libero e pericoloso, come la libertà stessa. Per questo affondano regolarmente anche le navi dette “inaffondabili”. Ci saliamo sopra pensando di essere al sicuro, ma l’unica cosa sicura è quell’acqua nera e gelida che è pronta a richiudersi su di noi. E allora capiamo. Ma è troppo tardi. Non lo potremo dire. Nessuna metafora, nessun paragone: nell’oceano dell’odio, dell’ingiustizia e della disuguaglianza siamo già affondati tutti da un bel pezzo.