Abbiamo perso parecchio tempo, nei giorni successivi alle stragi di Oslo e di Utøya, a disquisire profondamente sul "signor Baialarga". Se fosse o meno un nazista, un "integralista cristiano", un pazzo, un prodotto di Oriana Fallaci, un invasato o decine di altre cose. Di quei sessantotto ragazzi dell'isola ce ne siamo scordati presto, se mai ce ne siamo ricordati davvero. In fondo, Breivik ha ottenuto esattamente ciò che voleva: catalizzare su di lui tutta l'attenzione, sin dall'inizio. Sapeva probabilmente bene che, in mezzo all'oceano di odio che aveva suscitato, ci sarebbe stato anche un'isoletta di ammirazione, forse più grande della stessa Utøya. Io stesso confesso che, delle sue vittime, Alexandra è la prima di cui riesco a sapere il nome completo, che peraltro potrebbe essere inesatto. La prima che sento parlare, con calma, di quei suoi terribili momenti passati a diciassette anni. Numerosi testimoni hanno dichiarato che Breivik provava particolarmente piacere nello sparare alle ragazze; oltretutto, Alexandra è di colore. Il biondo nordico che spara alla negra.
Poi, il 13 dicembre 2011, uguale attenzione la abbiamo riservata a un altro tizio, più vicino a noi. Quando Gianluca Casseri ha sparato ai senegalesi a Firenze, in piazza Dalmazia e al mercato di San Lorenzo, uccidendone due e ferendone altri. "Ecco il nostro Brevik", abbiamo esclamato; anche se, sono costretto a dire "fortunatamente", non gli è riuscito raggiungere lo score del norvegese. E giù disquisizioni, dalle quali fuori non mi chiamo, se fosse o meno tale, se provenisse dalla stessa "cultura", quali fossero le similitudini e le differenze. Nel mezzo, Samb Modou e Diop Mor, stesi morti sul selciato della piazza. Nel mezzo, tutte le grida sulla "chiusura di Casapound", che si stanno affievolendo. Casapound non chiude affatto, passata è la tempesta e ode augelli far festa. Con le mille discussioni, ognuno è rimasto del proprio parere ben sapendo che non è affatto fondamentale, e che almeno in una cosa Breivik e Casseri sono perfettamente identici: da qualunque pozzo nero essi provengano, esso è affollato. Ne salteranno fuori altri, perché saltano fuori dalla haine. La haine lavora a pieno ritmo e non si ferma. I suoi risultati, tutti "differenti" ma orribilmente uguali nel sangue che scorre, non "insegnano" proprio un bel niente a nessuno. Ci culliamo per un po' nell'illusione emotiva che "le cose cambino", facciamo finta di percepire un "mutamento di rotta" e ci godiamo le folate che, si dice, spazzeranno via le nubi nere. Poi, pian piano (e aiutate da connivenze, complicità, comodità, finte democrazie, propagatori, impollinatori, Metilparapound, originaloni, questori e quant'altro) ricominciano a addensarsi tranquille e inesorabili.
Nei primi momenti si invocano sempre i nomi, ne abbiamo fame. Dobbiamo poter dire che delle vittime "non si sanno neppure i nomi". Poi, eccoli, questi nomi; li dobbiamo avere per dimenticarli più comodamente. Sempre che, naturalmente, siano vicini geograficamente. Conoscere il nome di un paio di senegalesi morti in piazza Dalmazia è, ad esempio, molto più semplice che conoscere quello di coloro che non sono morti. Quello di Moustapha, ad esempio. Si chiama Moustapha Dieng, ha 34 anni e è rimasto paralizzato. Dal 13 dicembre scorso si trova al piano terra del CTO di Firenze, a poche centinaia di metri da piazza Dalmazia. Unità spinale, "area rossa", terapia intensiva, reparto acuti. La vita di Moustapha Dieng è distrutta anche se non fa parte della litania sambmodoùdiopmor. I nomi dei morti completi si ricordano comunque meglio di quelli dei morti a metà. Di quelli che sono morti ma respirano ancora. Un amico, Madiagne Ba, lo va a trovare tutti i giorni e fa un ritratto perfetto e spietato della situazione: «Eh i primi giorni venivano in tanti a trovarlo, non li lasciavano entrare e stavano fuori dalla porta. Da mesi non si vede più nessuno, a parte suo fratello e noi della comunità senegalese».
Nessuno, insomma. Né il sindaco, né gli antifascisti dei cortei. Né le "istituzioni", né gli "antagonisti". Uno di questi giorni piglio, e vo al CTO a trovarlo, da solo. Se mi riuscirà di vederlo, se mi lasceranno passare, non so cosa gli dirò; ma almeno una cosa è certa. Gli dirò che mi vergogno. Di essere uno di quelli che è andato a cortei e manifestazioni senza preoccuparsi nemmeno un secondo di andare a sentire come stava, a dirgli due o tre parole. Delle quali, magari, non gli importa niente; la sua vita è finita, eppure deve continuare a viverla.
Non so più esattamente che cosa si possa davvero fare per combattere l'odio; se ne è oramai perso l'inizio. Nella stessa Firenze delle "folate" dicembrine, si respira adesso la stessa aria di prima. I senegalesi sono tornati a dare fastidio se vogliono vendere qualcosa nei mercati o davanti ai bar e ai supermercati. Qualcuno avrà pur ricominciato a pensare e a dire, quando un Samb, un Diop o un Moustapha insistono per avere un paio d'euro per la loro paccottiglia, che il Casseri ha fatto proprio bene. Forse l'unica che fa bene è la Guzzanti, che i fascistelli razzisti di merda li piglia per il culo con "Elsa Pound" invece di chiederne una chiusura che non ci sarà mai. Cosa volete chiudere, poi? Per non avere più i Casseri bisognerebbe chiudere ben altro, ivi comprese le case del popolo, i circoli "democratici" e quant'altro dove si sentono le stesse precise cose. Le ho sentite, da qualcuno, persino al "centro sociale". Niente e nessuno è immune. La fiaccolata contro i Rom l'ho vista coi miei occhi, tempo fa, partire da una casa del popolo, proprietà della classe operaja, dedicata al partigiano e con la lapide che inneggia alla pace universale.
Guardando il filmato, a molti verrà da pensare che Alexandra è bellissima. Voleva fare la modella, ma non può più: difficile farsi fotografare in costume con una cicatrice sulla gamba grossa come due mani aperte. La bellezza, sicuramente, parla; ma anche Breivik, beh, era un bel fioeu e a qualcuno parlerà anche la sua. Poi, tra quelli che ha ammazzato, ce ne saranno stati anche di meno belli e belle di Alexandra che voleva fare la modella e che vuole tornare in Africa. Il Casseri, invece, era brutto come la fame; e noi come siamo? Noi che andiamo alle mobilitazioni senza pensare nemmeno per un attimo a mobilitarci dentro, passando con la massima indifferenza da una cosa all'altra a seconda della cosiddetta attualità, o urgenza. Forse, chissà, una medicina efficace sarebbe proprio ritrovarci davanti un Breivik o un Casseri, diversissimi ma con la stessa arma in mano, pronta a spararci. Gli atei più incalliti, chissà, pregherebbero Iddio. Oppure i credenti più ferventi lo maledirebbero. Ci arrovesceremmo la vita in quegli istanti che potrebbero essere gli ultimi. Ci toccherebbe o non ci toccherebbe; oppure faremmo la fine di Moustapha, inchiodati per sempre a un letto senza poterci muovere. Oppure, ancora, ce la caveremmo con una cicatrice nella gamba e con una, ancor più grossa, nella nostra vita intera. Con calma dovremmo viverci assieme. Come dice Alexandra nella sua frase finale: "He's not going to destroy my life". Non distruggerà la mia vita. Magari potremmo, chissà, cominciare a non farcela distruggere ancor prima che il Signore dell'Odio ci spari addosso, senza nemmeno chiederci se, magari, non odiamo quanto lui. Potremmo chiudere, dentro di noi, non soltanto "Casapound" o qualche altro ridicolo gruppuscolo di idioti, ma tutto un intero sistema che ci condanna all'impotenza in nome di vendere e comprare il nulla. Allora i Breivik e i Casseri comincerebbero a tremare e, in definitiva, a dissolversi.
Tanti auguri, Alexandra. Tanti auguri, Moustapha. Non so dirvi altro e non sono niente.