mi succede proprio una bella cosa.
Ma in che razza di mondo siamo?
O non mi hanno detto: Vattene, fannullone.
Ecco perché: nella fabbrica
Dove lavoro da quarant'anni
Il padrone mi guardava male.
Non dicevo nulla, i miei figli hanno fame
E anche se non facevo nessuna pausa
al lavoro lui non è contento,
al lavoro non era contento.
Oh, ne ho voluto sapere la causa
Dato che durava da troppo tempo.
Ieri alla fine ho perso la pazienza
E sono andato a vedere il padrone
E gli ho detto, a testa bassa:
"È perché non faccio abbastanza,
Pensate che lavoro troppo poco
E che non posso più contentarvi?"
"Incominci a esser vecchio",
Mi risponde squadrandomi tranquillo,
"Da un po' di tempo il tuo lavoro
è mal fatto e poi sei un fannullone.
Se ti ho tenuto fino ad ora
È per pietà, ma ora è finita.
Ti do ancora qualche giorno."
Credevo di svenire.
"Mi buttate via come uno straccio,
a me, che in centomila modi
mi sono chinato per arricchirvi."
Mi dice: "Non convieni più tanto,
Sei fiacco, vai piano sul lavoro,
Hai i capelli bianchi, ti sei ingobbito
E poi sei un fannullone, vattene, su,
E poi sei un fannullone."
La storia di quei versi proviene dalla Marsiglia degli ultimi anni del XIX secolo. I versi, scritti in dialetto occitano marsigliese (ora praticamente estinto) dal poeta Joan Lo Ribèca, sono del 1897 e si intitolano Feniant, che vuol dire: Fannullone. Sono stati messi in musica nel 2000 dal gruppo marsigliese dei Dupain, che hanno fatto come Mathieu Kassowitz nel cinema: un inizio folgorante, spaventoso, enorme. Dopo, il nulla o quasi. Il primo album dei Dupain è come il film La haine. Da togliere il fiato.
La Marsiglia degli anni tra il 188o e il 1910 vede, da un lato, l'immigrazione di un numero spaventoso di manodopera industriale e portuale straniera, soprattutto dall'Italia. E vede lotte operaie continue e represse nel sangue. La strategia padronale è la seguente: dividere i lavoratori su base nazionalistica. Francesi contro italiani, accusati di "rubare il lavoro". Sono gli anni delle stragi di italiani, come quella di Aigues Mortes del 1883; ma anche a Marsiglia, dove emigrano circa 250.000 lavoratori stranieri, non va diversamente.
Quando si leggono queste cose, si tende immediatamente a pensare che siano state scritte appena ieri, o roba del genere. Lo si pensa e lo si dice con un misto di finto stupore e di ipocrita meraviglia, quando si sa benissimo che i meccanismi del capitalismo, pur nella logica evoluzione degli eventi, delle tecnologie, degli sfondi politici e sociali e delle ideologie predominanti, sono sempre stati gli stessi e sempre lo saranno. Bisognerebbe accogliere tutto questo con coscienza ferma e con le idee chiare; quando si legge dei gesti di Dimitris Christoulas o di Savas Metoikidis è necessario pensare a tutti coloro che li hanno preceduti nella storia, e sono legioni oramai senza nome.
Nella Marsiglia di quegli anni, dopo un po', i lavoratori si accorsero in che modo i padroni giocavano con loro; cominciarono, prima timidamente e poi in modo deciso, le manifestazioni e gli scioperi in comune, fianco a fianco. Lavoratori francesi e immigrati italiani e di altri paesi. Fronte comune, e repressione che si abbatté su entrambi, ancora più feroce. Cominciarono a comparire cartelli come Vive la France, vive l'Italie, vive la lutte contre les patrons. E non a caso il poeta Joan Lo Ribèca scelse di scrivere in un linguaggio morente come l'occitano marsigliese; mediante quell'ultimo resto di un idioma antichissimo e glorioso, volle come utilizzare il simbolo di una lingua comune a tutti e senza tempo. La lingua della lotta è una sola. Viene da ogni tempo e da ogni luogo, e dovrebbe essere da tutti compresa. Come la comprende chi muore di lavoro, sotto ogni forma. Come chi muore di disperazione e di rabbia. Come chi muore per arricchire coloro che poi gli danno di "fannullone".
m'en arriva una que'm pega.
Mas de que paoun de mòun essian?
M'an pas dit vai t'en mal, feniant.
Veçì la causa: dins l'usina
Ount eri desprès quarante ans
Lou patroun me fesait la mina.
Desièu ren, mis pichouns an fam,
Maougar que je sitgi de paouva
Aou travailh, el n'ès pas countent,
Aou travailh, era pas countent.
O, querì ne saouper l'encaou,
Ca durà desprès trop loungtemps.
Hier enfin, ma paciença lassa,
Anèri veure lou patroun
E li diguèri, testa bassa:
"Ès-çi perqué n'en fai pas prou,
Trouvàs que travailh trop gaire,
Que podi plu vous countentar?"
"Coumençàs a venir dins l'atge",
Me respuent en me sussent plan,
"Desprès quelque temps vuest ouvratge
Ès mal fait e pues sias feniant.
Si vous ai gardat ientges qu'ara
Ès par pietat, n'ès finit.
Vous doni quelques journs encara."
Ieu cresièu de m'estavanhir.
"Coum un esfàs me jetàs,
Me, que de cent miles manieres
Pour v'enrichir m'essièu vourtat."
Me dis: "Me reportàs plu fuars,
Sias muelh, vas adaisou aou travailh,
às el pelh blanc, toun corps se tuort
E pues sias feniant, vai t'en, vai,
E pues sias feniant."