Guardi la Fiore, che è figlia per l'appunto di un vecchio del CPA, e ti sembra di fare un salto indietro di qualche secolo. Viene direttamente da un quadro del Rinascimento. Altissima, filiforme, la grazia incarnata. Bionda, gli occhi chiarissimi, acquosi, di un colore indefinibile. Una bellezza di un tempo che non c'è più; e, al tempo stesso, una ragazzina d'oggi. Cava fuori il diario dove c'è scritto "Fiore" in tutte le salse; telefona a una compagna per chiederle chissà cosa; apre bocca e la bellezza rinascimentale si mischia alla Lèmpiha e a un modo di parlare da fare scompisciare, perché è di una simpatia unica.
Nel frattempo, bisogna che vi presenti il CPA, noto covo di terroristi e fucina di galere e arresti domiciliari, in una serata qualsiasi. Al tavolo c'è Giancarlo, un tambocchiolino di un metro e sessanta, con la chitarra e il suo quadernone dei testi. Spettinato in modo quasi artistico. Giancarlo, tutta la sua enormità l'ha messa nella voce; ha una canna di fiato da stiantà un bove. Si mette a cantare e lo sentono da Bologna. Più in là c'è il cantore popolare ufficiale del Centro: come si chiami per davvero se lo dev'essere dimenticato pure lui, visto che per tutti è Il Menestrello. Uno che nel suo repertorio mescola i canti partigiani col Tango di Piazza Piattellina, le canzoni politiche degli anni '70 con quelle da caserma; o che lo volete i' popolo? Le canzonacce da caserma, dice il partigiano Sugo, le cantavano a profusione anche lassù in montagna, con le armi in pugno a liberar l'Italia dai nazifascisti. Poi ci sono io che vago; a un certo punto mi metto a cantare assieme al Menestrello Fagioli 'olle 'otenne, noto "hit" livornese. Ci sono la Diàola e i' Diàolo, coppietta ovviamente diabolica; in cucina c'è un casino indescrivibile, affettamenti di cipolle, mescolamenti di lampredotto e trippa, asparagi che bollono, cortellàte su i' tagliere, bestemmie sanguinose, l'immancabile capannello col discorso politico serio, la gente che va e viene dalla "Biblioteca Majakovskij". E la Fiore che fa l'inglese e Tamara de Lèmpiha. Quand'ero in seconda media io, manco si sapeva che esisteva, quella lì; al massimo, ci si scambiavano le figurine e i giornalini dei Fantastici Quattro (io me li scambiavo sempre con un ragazzo che aveva, in assoluto, gli orecchi più sudici e merdosi che abbia mai visto; alla fine, un giorno, glielo dissi e ci rimase malissimo).
Poi è arrivato il partigiano Sugo, che ha un po' più di dodici anni e mezzo; e s'è messo a chiacchierare con la Cristina e con altra gente. Giancarlo spaziava da Bob Dylan a qualche improbabile gruppo militante còrso, sempre con quella sua voce da demolire i muri (e demolirli al CPA, a dire il vero, non sarebbe propriamente difficile). Io e il Menestrello s'ascoltava. Poi la Fiore ha chiuso i libri e ha preso un quaderno con sopra raffigurato un personaggio che non conosco, un giovanotto col ciuffo, sonasega chi gli è. Bisognerebbe avere dodici anni per saperlo, probabilmente; ma senza arrivare agli ottantasei anni del Sugo, anch'io appartengo oramai a un passato lontanissimo per quella ragazzina. Ha chiesto, la Fiore, se poteva cantare una canzone anche lei, e figuriamoci; Giancarlo le ha dato subito la chitarra. Perché la Fiore la sa strimpellare. Dico "strimpellare" con tutta l'invidia provata da uno come me, che non sa sa fare nemmeno mezzo accordo e che non ha mai imparato; e la Fiore ha cominciato a cantare, con una vocina bassa bassa. Talmente bassa che, all'improvviso, è calato il silenzio. Sul suo quadernetto col ragazzo ciuffato, sul quale ragionevolmente ci si aspetterebbero i tizianiferri o i giastinbìber, aveva trascritto una canzone partigiana. Il bersagliere ha cento penne.
Mentre la fiore cantava, è arrivato il Sugo come spinto da una molla; ma senza dire una parola. Io lì col braccio al collo del Menestrello. Giancarlo a bocca spalancata. Zitto perfino il Bellino che giocava a carte. In cucina, tutti fermi; mezzelune a mezz'aria, discorsi politici troncati, soffritti sospesi, le cipolle che forse ascoltavano anche loro prima di essere tritate. E la Fiore che andava avanti, con quelle sue manine raffaellesche, a suonare e a cantare del partigiano che di penne non ne ha nemmeno una e che riman lassù anche se venisse l'inferno. Il sugo in pentola che bolliva nel silenzio, e il Sugo partigiano che si era messo a piangere. Non sono esagerazioni; semplicemente ci s'ha da mettere nella testa di quel vecchio che sentiva cantare una canzone del genere da una ragazzina, dopo averla sentita nella sua vita chissà da chi. Anche perché lassù nei boschi di Fontesanta, col fucile in mano, era poco più grande di lei; aveva diciassett'anni. E Gogliardo Fiaschi, quand'era entrato in Modena liberata in testa ai compagni e portando la bandiera, di anni ne aveva quattordici e mezzo.
E la Fiore che attaccava l'ultima strofa di quella canzone, che è breve. Alzando un po' la vocina agli ultimi due versi, quelli che dicono: Perché se libero un uomo muore, Non gli importa di morir. Il padre, che è un ragazzone terroristicamente buono come il pane, con gli occhi lucidi. Mi scuserete questo profluvio di làgrime che vi farà sicuramente pensare chissà cosa; ma siccome un po' ce le avevo anch'io, che non sono particolarmente propenso alla commozione, dovete pigliare tutto per buono. Solo per la Fiore doveva essere una cosa normalissima; come no, a dodici anni e mezzo cantare una canzone partigiana anonima del 1944 in mezzo a un posto del genere, è roba da nulla. Anzi, talmente da nulla, che alla Fiore non glien'è fregato manco un po' nemmeno dell'applauso, che del resto non le è stato fatto. Ha avuto strette di mano e abbracci. Qua e là un pugnetto chiuso da qualcuno, ma senza farsi vedere troppo; per quelli veri e palesi, se lo vorrà lei, c'è tutto il tempo. Ora c'è la Tamara de Lèmpiha e l'inglese. Probabilmente, sul quadernetto col ragazzo ciuffato ci sono anche Tiziano Ferro e Justin Bieber; oppure, chissà, c'è qualche altro canto partigiano.
E son ricominciate non a fiorire le viole, in questo aprile novembrino, ma a soffriggere le cipolle oramai rassegnate al loro destino; del resto, fanno piangere e sicuramente era colpa loro. Son tornati mòccoli e urli, i discorsi seri, Giancarlo ha ricominciato a berciare Sindo Garay e Me and Bobby McGee; la Fiore deve andare a letto presto, domani c'è scuola e se n'è andata via col babbo. E io? Io là, a pigliarmi la pasticca di metformina in attesa di mangiare il risotto con gli asparagi e il brie. Mica si scherza al CPA, sulla cucina; come la chiamano, l'Enoteca Minchiorri. E qualcosa mi si formava in testa, perché suonare la musica non so, ma suonare le parole un pochino sí; e la Fiore se lo merita, perdiana, in questo giorno che è il primo del mese di Floreale, o Fiorile. Senza trarre morali o far discorsi roboanti su speranze che non muoiono, anche se forse non muoiono davvero.
Nella foto c'è la Banda Corbari. Forse non c'entra niente, o forse sí.