martedì 31 luglio 2012

Dieci canzoni italiane. (1) Marta di Antonello Venditti.


Come preannunciato qualche giorno fa, inizia questa specie d'avventura a giro per alcune canzoni in lingua italiana. Per le prime nove, lo schema sarà fisso: il video YouTube, il commento e il testo della canzone. Buona lettura.
 
Io, Marta, l'ho conosciuta di persona; solo che non si chiamava Marta. Si chiamava Viviana, aveva 15 anni e stava dalle parti dell'Appia Nuova, nel 1978. Era il ventidue ottobre di quell'anno, una domenica; a Roma abitava un'amica d'infanzia di mia madre, col marito e la figlia; ora il marito è morto da un subisso di tempo, e le due donne stanno vicino a Udine. 

Da quattro giorni esatti mi era come cambiata la vita, ma non lo sapevo ancora; ero un ragazzino altissimo, sporco e con dei capelli assurdi. S'andò a Roma, quella domenica, a trovare quelle persone, che anch'io conoscevo da sempre; la loro figlia aveva un anno più di me. Nel primo pomeriggio mi propose d'uscire, si doveva vedere con una sua amica che stava là vicino; e fu quella domenica pomeriggio che mi accorsi di Roma, e di quella Roma là. La sua amica si chiamava Viviana, aveva quindici anni come me, era parecchio carina e i miei dieci secondi di sogni cessarono all'istante quando si mise a parlare der fidanzato. Già fidanzata "in casa" con un ragazzo di diciott'anni, li probblemi, gli occhi chiarissimi che ci aveva, l'autobus linea 671 che, a me, abituato a Firenze che si fermava al 52 domenicale Piazza Stazione-Stadio, faceva impressione. E Roma che non finiva più, sotto un cielo plumbeo. S'andò persino a finire in una specie di discoteca, io che non c'ero mai entrato nemmeno mezza volta; e i ragazzi della mia età d'allora, la metropoli, una collezione d'inquietudini che coglievo solo in parte e un senso di inadeguatezza che non sapevo da dove potesse venire. Alla fine, salutai tutte due le ragazze e mi azzardai a prendere una serie di autobus dell'ATAC da solo per tornare verso l'Appia Nuova. Mi ricordo che aprii bocca, a un certo punto, con tre ragazzi con le sciarpe giallorosse; sentito il mio accento, si diventò amici per sette o otto minuti. Non c'era acredine tra fiorentini e romani, allora; s'era tutti contro 'a Juve

Marta l'ho conosciuta così, intuendola senza saperne nulla. Non l'ho mai più vista, anche se ogni tanto domandavo alla mia amica, la figlia dei conoscenti dei miei, come stava. Ci avrò scambiato quindici parole in tutto; e me la ricordo ancora, come fosse ieri. Me la ricordo e mi ricordo quella Roma mezza in guerra, brulicante. Mi ricordo d'essere entrato per un pomeriggio in quel miscuglio di sterminatezza, di fidanzate, di strade, di ragazzi e ragazze qualsiasi, di fumi d'ogni giorno, di domeniche in discoteche atroci, di mezzi pubblici strapieni. Di famije, di ascensori cigolanti di legno che funzionavano con le dieci lire, di scale B e scale A. Di quartieri divisi da muri, e di non so cosa; ancora ci ripenso. Però, quando sentii per la prima volta la canzone di Marta, non passò nemmeno un secondo che mi misi subito a pensare a quella domenica pomeriggio, alla Viviana, a tutto il resto passato in quell'ordinario periodo della mia squinternata adolescenza. Come ci fossi stato sbattuto dentro con giusto il tempo di afferrare qualcosa di vago, ma che non mi ha mai più lasciato. E cominciò da allora il mio tira e molla con Roma, che mi avrebbe riservato tutto e il contrario di tutto.

Dell'autore di Marta, a dire il vero, si sa molto poco. Sarebbe potuto essere tranquillamente uno di quei ragazzi incontrati sull'autobus, che parlava della sua vita e di quella di tutti; le cronache, chiamiamole così, ci dicono che era un giovane proletario romano che finì sotto un camion sulla Tiburtina, nel '76. Naturalmente non deve essere confuso con un suo famoso omonimo, quello poi preso per i fondelli da Corrado Guzzanti e che ebbe, a suo tempo, il singolare record di farsi fregare la moglie da Maurizio Costanzo; no, dico, va bene se la moglie te la frega George Clooney o Richard Gere, ma farsi mettere le corna da Maurizio Costanzo è da suicidio. Comunque, ce ne importa abbastanza poco; è chiaro che una canzone come Marta viene da un altro mondo e spiace veramente che del suo autore rimanga poco o nulla. 

Rimane questa canzone. Ci sono canzoni che incitano direttamente a cambiare uno stato di cose (anche perché non è affatto vero che a canzoni non si fan rivoluzioni; anzi, direi che a canzoni si fanno, sovente, le rivoluzioni più vere e profonde); ci sono quelle pronte da consumare per un dato momento, e ci sono quelle dove si vorrebbe salire verso altezze sublimi o scendere ad abissi infernali. Ci sono poi quelle, e non sono molte, dove si descrive un mondo intero; Marta è una di quelle, per me. E' tutta quella Roma degli anni '70, dove si crepava per le strade, dove ci si rivoltava per la casa a San Basilio, dove si bruciava e dove si metteva l'erba nella pipa di Lama; ma non se ne parla, di queste cose. E' quella stessa Roma, però, anche se presa da un'altra angolazione. Quella di chi c'era comunque, nella massa, nelle domeniche grigie; quella di un proletariato alle prese con la solita sopravvivenza, quella di fatiche e amori, quella delle delusioni perché faticare non te le risparmia di certo. Mi scuso per tutta questa confusione enunciativa; è perché, mentre scrivo, ho ancora in mente quel che vedevo domenica 22 ottobre 1978. 

Marta la canta un ragazzo che è, palesemente, innamorato di lei. Di quel tale, Venditti Antonello detto "Nello" (come il fratello della mia amica romana), non si conoscono immagini in vita; ma tutto lascia immaginare che la canzone sia largamente autobiografica. Ci si figura quindi facilmente la sua timidezza estrema, la sua cucina con la lampadina a 40 candele e le piastrelle gialline smunte, la mamma casalinga e il babbo impiegato di quart'ordine in qualche ufficio pubblico; e l'amica Marta che sta con uno che non va, e che di giorno va a fare la commessa e poi segue le scuole serali per prendere quella licenza che le servirà per il concorso. Ci sarebbero tutti gli ingredienti, detto fra noi, per una bella canzone del cazzo, tipo quelle dell'altro Venditti, quello famoso. Invece, qui, si rovescia ogni cosa. Si comincia con la preghierina d'ordinanza, per mettere subito in chiaro che non c'è nessun Dio che risponderà; prima mattonata. Le preghiere non servono a un bel nulla, e la "libertà" che sembri avere è falsa. Era bravo, quel ragazzo che scriveva canzoni, a sparare subito colpi precisi; dalle scarse testimonianze di chi lo conobbe e lo vide a volte suonare in posti improbabili, sembra che avesse una grande predilezione per le figure femminili, specialmente in anni duri e strani come quelli in cui la condizione della donna stava cambiando rapidamente anche in Italia. E con questo ritratto di una giovane proletaria alle prese con tutte le difficoltà e le durezze della vita quotidiana e della famiglia, con il padre che le prende i soldi e poi le chiede pure della pagella, Nello Venditti ci ha dato una cosa indimenticabile. E una cosa che ha contribuito parecchio a spiegarmi quel che avevo visto a Roma, quella lontanissima domenica d'ottobre. 

Colpi precisi, dicevo. Nessuna indulgenza. Marta, stai attenta: smettila di biascicare preghiere, e ribèllati. Lotta, Marta, non pregare. C'è una parola, nella canzone, per la quale passa ogni cosa; una parola che non si spiega agevolmente, sulle prime. Come mai il padre che chiede il salario prima e la pagella poi, lo fa per la sua complicità? Che cosa nasconderà? Che diavolo succedeva (e succede) nelle famiglie qualsiasi, appartamento 41 al sesto piano scala C? Ci ho pensato tante volte, figurandomi a mosaico quella giornata di Marta col viso della Viviana, ché un viso bisogna sempre darlo. E come mai tutte 'ste preghiere? Ma ci pensa l'amico Nello, quello che se ne sta sempre tappato in casa senza avere il coraggio di far nulla, a lanciarle un messaggio nella bottiglia dei pensieri. Digli di no, Marta, non ci stare. Non pregare dèi inutili, e chiudi i pugni urlando la tua vita. Lo stavano facendo, là fuori, migliaia di ragazzi e ragazze che si accingevano ad essere sterminati di galere e di eroina; il prezzo dell'affermazione della vita di fronte al padre-stato che, magari per la sua complicità, esigeva salari, pagelle e sangue.

Quante volte mi sarò ricantato, da ragazzo e da uomo, quell'ultima parte della canzone; una delle mie preferite in macchina, da solo. Io, io non sono niente, ma ho vissuto come te. Sempre chiuso nello specchio aspettando un altro me. Accidenti a quel camion di merda, putain de camion come scrisse Renaud Séchan; poteva schiacciare Eros Ramazzotti mentre andava a scuola, no; macché. Avete presente che cosa vuol dire dichiarare a qualcuno (non importa se una ragazza, un gatto o una pietra colorata) la propria identità unita al male di vivere, che nell'adolescenza fa ancora più male (l'età più bella un accidente)? Oppure dire a qualcuno che la propria vita non esce da una camera di ragazzo ammobiliata di risulta, in quei quartieri di palazzoni, salsamenterie, fermate dell'autobus e terreni incolti? E intanto scoppia tutto quanto. E se esci una sera, Marta, dopo aver detto finalmente di no a quel pezzo di merda di tuo padre, tenendoti il salario, magari vienimi a bussare. Toc toc.

Ce n'erano di speranze, e speranze da amare; in quel fumo che portava via ragazzi e ragazze come noi, che ne avessimo coscienza o meno, si poteva forse pensare che il nostro tempo avrebbe vinto. Ci ritroviamo, ora, a scorrere lentamente verso una deriva con dentro la testa una vita intera sempre chiusi nello specchio. Marta avrà magari finito per sposare il ragazzo che non va, che non sarà magari andato ma ci aveva un buon impiego; alla parrocchia dell'Immacolata, con quel Dio che continuava a non rispondere ma davanti al quale le parlavano di morte finché non vi separi. Pranzo da Baffo er Bisteccaro alla pineta di Maccarese e viaggio di nozze a Venezia, con primo ceffone coniugale al seguito. Poi li pupetti....e lui, il suo amico, con qualche ripiego e una vita intera passata a pensare a lei; ma con la consapevolezza, una data sera alle 19 mentre si sentivano i primi rumori del secondo tempo registrato della partita e la voce di Nando Martellini, di averle rivolto la più alta dichiarazione d'amore che si possa immaginare. Quella dove non si dice di legarti, ma di scioglierti. Quella dove due niente si uniscono nel rifiuto e nell'abbandono di una strada già tracciata. Quella della ribellione.

Sì, certo, ora mi sono fatto decisamente prendere la mano. Ho fabbricato l'immancabile telenovela senza lieto fine. Quasi mai, del resto, sono a lieto fine queste storie. La classe tra il proletariato e l'infima piccoloborghesia non riserva generalmente sorprese; e raccontarne le storie non è peraltro semplice. Non si ha di solito nulla da raccontare, se non sogni di rivolte che non passano il portone del condominio, e speranze andate a puttane come va a puttane un tredici al totocalcio svanito a poco dalla fine per l'inopinato pareggio del Pescara; ma, non si sa mai perché, il Pescara pareggia sempre. Ciao Marta, ciao Viviana che da trentaquattr'anni le presti quel tuo viso di quindicenne che quindicenne resterai per sempre. Continuo, però, imperterrito, a voler amare le vostre speranze, anche con questa canzone d'un ragazzo tritato da un autoarticolato, e dal tempo. Il nostro tempo non ha vinto, ma magari qualcosa, a una Marta di ora e a un suo amico, si può ancora dirla.

Prega, Marta, nella sera
nessun Dio risponderà.
Ogni giorno una preghiera,
e una falsa libertà.

La giornata è stata dura,
piena di contrarietà
il lavoro e poi la scuola
e un ragazzo che non va.

Urla, Marta, non pregare
se tuo padre chiederà
il salario o la pagella
per la sua complicità
digli di no,
digli di no,
digli di no.

Io, io non sono niente
ma ho vissuto come te
sempre chiuso nello specchio
aspettando un altro me.

Lotta, Marta, nella sera,
io sarò vicino a te
amerò le tue speranze
il tuo tempo vincerà
anche per me,
anche per me,
anche per me.