Qualcuno era camionista perché era nato in Albania, in Bulgaria, a
Castelvetrano o a Mogliano Veneto.
Qualcuno era camionista perché il nonno, lo zio, il papà avevano un Lupetto OM che per ingranare le ridotte bisognava fare delle doppiette terrificanti...e qualche volta ci portavano anche la mamma che preparava la pasta 'ncasciata o i risi e bisi.
Qualcuno era camionista perché vedeva l'autostrada A3 Salerno-Reggio come una promessa, l'A4 Torino-Piacenza come una poesia, le trattorie come il paradiso terrestre e forse c'era anche la padrona che gliela dava di nascosto al marito.
Qualcuno era camionista perché gli piaceva sentirsi solo.
Qualcuno era camionista perché aveva avuto una educazione troppo a piedi o in bicicletta, e a 14 anni non c'erano i soldi per il Betino a tre marce, e del Califfone non se ne parlava neppure.
Qualcuno era camionista perché il cinema lo esigeva (Convoy, Duel), il teatro no perché portare un camion dentro al Piccolo era un casino e andava contro le esigenze degli intellettuali milanesi (Strehler, Gaber eccetera); sul palcoscenico, al massimo una Vespa o una moto; la pittura non si sa (forse ci sarà stato un camion in qualche quadro realista sovietico o rumeno), la letteratura è letteratura e ci può star qualsiasi cosa...insomma con un camion è sempre un casino, porca troia.
Qualcuno era camionista perché glielo avevano detto di prendere la patente C.
Qualcuno era camionista perché non gli avevano detto che per guidare gli
autoarticolati e gli autosnodati ci vuole la E.
Qualcuno era camionista perché prima...prima...prima...era magazziniere.
Qualcuno era camionista perché aveva capito che uno Scania andava piano, ma lontano, e che sorpassarlo era comunque un bel casino sulla Firenze-Bologna, specialmente con una Polo blé scassata targata Ravenna.
Qualcuno era camionista perché Berlinguer era un nobile sardo di antica origine catalana, e gli sarebbe piaciuto passargli sopra due volte col rimorchio.
Qualcuno era camionista perché Andreotti faceva le battutine che tutti
ridevano, e gli sarebbe piaciuto passargli sopra tre volte col rimorchio.
Qualcuno era camionista perché amava il popolo, e il popolo non può essere servito col trasporto merci su rotaia.
Qualcuno era camionista perché beveva il vino e si commuoveva a provocare megatamponamenti con relative distruzioni di stupide famigliole di gitanti.
Qualcuno era camionista perché allora c'erano le autostoppiste finlandesi.
Qualcuno era camionista perché era così ateo da voler fare volare giù dai viadotti i camioni pieni di madonnine, padripii, santantonidappadova e papigiovanni (quasi sempre targati Caserta, non si sa perché).
Qualcuno era camionista perché era talmente affascinato dai camion che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era camionista perché gli piaceva parlare al baracchino.
Qualcuno era camionista perché non ne poteva più di fare il filologo ugrofinnico.
Qualcuno era camionista perché voleva trasportare, un giorno, un carico di armi per la revoluciòn.
Qualcuno era camionista perché la revoluciòn bisognerebbe farla con un Dodge scassato sulla Sierra Madre, mentre al massimo ora si divertiva a far pigliare paura a uno con una Ford Sierra.
Qualcuno era camionista perché la borghesia, il proletariato e la lotta di classe hanno comunque bisogno di consegne urgenti, e comunque anche i camionisti sono figli del popolo senza che quella fava di Pasolini ci abbia mai scritto poesie sopra.
Qualcuno era camionista per fare rabbia a quelli coi furgoncini.
Qualcuno era camionista perché ascoltava solo RADIO MARIA.
Qualcuno era camionista per snobismo, qualcuno per bisogno, ma tutti quanti sognavano prima o poi di fare come quelli di Overland.
Qualcuno era camionista perché voleva camionizzare tutto.
Qualcuno era camionista perché lui di stare col culo su una sedia dietro una scrivania proprio non ne voleva sapere.
Qualcuno era camionista perché aveva scambiato l'autostrada per il Vangelo secondo Gilles Villeneuve.
Qualcuno era camionista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia in una coda di trentasei chilometri sull'A14 direzione Rimini.
Qualcuno era camionista perché era più camionista degli altri.
Qualcuno era camionista perché non esisteva il grande partito camionista e gli sarebbe piaciuto fondarlo.
Qualcuno era camionista e aveva pure la tessera del partito comunista.
Qualcuno era camionista perché non c'era niente di meglio.
Qualcuno era camionista perché l'alternativa era far domanda nei carabinieri.
Qualcuno era camionista perché i trasporti peggio che da noi, solo in Islanda.
Qualcuno era camionista perché non ne poteva più di quegli stronzetti con le spàider.
Qualcuno era camionista perché non avere la patente sta diventando troppo di moda, come l'anarchia.
Qualcuno era camionista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera, erano tutto sommato banche, piazze, stazioni, treni e aerei e i camion non c'entravano un cazzo.
Qualcuno era camionista perché chi era contromano era camionista.
Qualcuno era camionista perché poteva ascoltare tutta la musica che gli pareva, persino Giorgio Gaber.
Qualcuno credeva di essere camionista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era camionista perché sognava la libertà delle highways americane, poi una volta incocciò Quentin Tarantino che lo portò in uno strano locale dal tramonto all'alba.
Qualcuno era camionista perché credeva di poter essere vivo e felice solo essendo un camionista.
Qualcuno era camionista perché aveva avuto bisogno di una spinta e gliela aveva data un camionista.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita, e questo pensava volando di sotto dal viadotto del Polcevera.
Sì, qualcuno era camionista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come... più di sé stesso. Era come... due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana, dall'altra il rombo del motore, le donnine gnude appiccicate in cabina, il carico di tetracloruro di sodio, e cazzo, se ho voglia passo in una città e fo scoppiare ogni cosa, vaccaccia troia impestata e lurida, e dall'altra il senso di appartenenza a una categoria che era tutto e il contrario di tutto, sperando che la CIA non gli imponesse uno sciopero per
rovesciare Allende e far vincere il mercato, ché tanto il mercato, almeno quello ortofrutticolo, vinceva ogni giorno comunque.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano ottenuto la patente senza essere capaci di guidare...come dei camionisti ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo che si ferma ossequiosamente ai rossi e fa attraversare scolari e vecchiette, e dall'altra colui che sogna di fare fuori tutti quanti calpestandoli fino a
vedere una poltiglia rossa.
Ma il piede destro s'è rattrappito.
Porcoddio.
Due miserie, e un camion solo.
E quasi quasi, allora, piglio un amaro monologo di Giorgio Gaber e ci faccio un pò di cazzi miei.
martedì 26 giugno 2007
Qualcuno era camionista
domenica 24 giugno 2007
Mortigliano
Un'altra storia dall'isola d'Elba. Mortigliano è nella fotografia. Una tra le tante cose sentite raccontare quando ero bambino o ragazzino. Una storia semplicissima, come ne saranno accadute a migliaia in ogni posto di mare. E' lunga e la lascerò almeno un paio di giorni senza inserire nuovi post. Chi la vorrà leggere si prenda una mezz'ora, un bicchiere di qualcosa e ogni tanto chiuda gli occhi ed apra l'immaginazione.
Viene dalla mailing list "Fabrizio" e anche dal newsgroup italia.firenze.discussioni (IFD), dov'è stata postata il 18 novembre 2004. Ma la sua primissima redazione è un tema in classe di quand'ero in quinta elementare.
Chi, all'Isola d'Elba, stanco delle spiagge affollate, della calca e degli ombrelloni, s'avventuri a cercare anche in pieno agosto qualche angolo più tranquillo, se non proprio vuoto, deve avere buone gambe.
Bisogna lasciare la macchina o la moto, e scendere giù per dei sentieri sovente ripidi; è faticosa la discesa ed ancor più faticosa la salita, specie quando il sole è a picco. Si cammina e si suda, si suda e si cammina; ma, una volta arrivati, si capisce che ne è valsa davvero la pena. Così quando si scende a due spiagge che dalla provinciale panoramica verso Pomonte e Chiessi, dopo Fetovaia, non si vedono e non sono segnalate da nessun cartello, anche per i loro nomi decisamente macabri, e che a qualcuno devono pur mettere un po' di paura: Le Tombe e Mortigliano.
Una accanto all'altra, separate solo da uno spuntone di roccia; una volta, alle Tombe, sono riuscito a starmene completamente da solo un dodici d'agosto. Ma è successo molti anni fa, quando ancora pochi avevano la barca. Molti anni fa; e questa è una storia ancora più lontana.
Mortigliano e Le Tombe. Che razza di nomi, probabilmente derivati da qualche antica sciagura di mare; almeno quello delle Tombe sembra risalire ai tempi della razzia saracena di Dragutin (che poi era il famoso Pirata Barbarossa, un serbo fattosi turco), nel 1553, quando tutti gli abitanti di Pianosa vennero uccisi o deportati, ed i cadaveri approdavano alle coste della vicina Elba; e provate ad immaginarvi quei posti ancora poc'oltre settant'anni fa. Perché questa, pur passata tra le maglie di qualche vecchia che ancora se la racconta e la racconta quando avevo cinque o sei anni, è una storia vera, e con una data precisa: il 13 dicembre 1929. La notte di Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia.
La strada che va da Marina di Campo a Marciana, passando per Fetovaia, Pomonte e Chiessi, è stata costruita a strapiombo sul mare, a forza di dinamite, dal 1960 al 1964. Prima non c'era che un sentiero, da farsi coi muli; oppure c'era il mare. Esistono, su dei bei calendari che si vendono nei chioschi dell'Elba ogni anno, delle foto dove si vedono dei contadini che vanno al mercato a vendere la loro roba, da quei posti, con l'asino infagottato fino all'inverosimile; ne tornavano con
pochi soldi e con le provviste che dovevano bastare per chissà quanto tempo. Solo uomini. Le donne restavano a casa. Ancora negli anni settanta, quando la strada c'era già, mi ricordo d'aver conosciuto delle vecchie che non s'erano mai mosse dal paese; vi erano nate, e vi sarebbero morte. A Chiessi, una delle attrattive del luogo sono due vecchissime sorelle la cui missione, da sempre, è quella di difendere la fontana dagli intrusi che vengono a prender l'acqua con le taniche, perché è acqua buona che scende dal monte; e la difendono con le unghie e con i denti. A parolacce e graffi. Qualche volta c'è scappata persino una sassata, son due da starci attenti. Perché, nella loro testa che batte la campagna, probabilmente si ricordano di quando, a Chiessi, non c'era che quella fontana, che doveva bastare per tutti quanti. Rubare l'acqua, era come rubare la vita.
E a Chiessi, nell'anno 1929, viveva un uomo il cui nome sembra essere stato Gaudenzio, o Godenzo (anche nel Mugello, San Godenzo vuol dire San Gaudenzio). Non era dell'Elba; veniva dalla Garfagnana, una delle terre toscane più povere e terribili, ed era un esperto muratore. Qui comincia la nostra storia, e quella dei suoi figli.
2.
Perché quel Gaudenzio fosse arrivato dalla Garfagnana all'Elba, è presto detto: essendo un muratore, lo avevano chiamato per costruire. Un faro. Il faro di Punta Polveraia, che è l'estremità della cala di Patresi, subito dopo Chiessi.
Sono acque pericolose, piene di scogli affioranti, e battute da venti che cambiano all'improvviso, e violentemente. Sono acque che, di morti, ne hanno fatti tanti; e li fanno ancora adesso, come un turista francese che mi capitò d'andare a tirar fuori dall'acqua, gonfio e annegato, nell'estate del 1981, con una vecchia ambulanza sulla quale prestavo servizio. E mi ci toccò fare, assieme a lui, anche il viaggio al cimitero. L'autista guidava, l'altro volontario stava seduto accanto a lui ed io, visto che ero il più giovane, dietro, seduto accanto al cadavere sulla lettiga, coperto da un lenzuolo. Ad ogni curva, la salma si rigirava, e dovevo tenerla per evitare che mi cascasse addosso.
Un faro ci voleva, per forza. Piccolo piccolo.
Ma che facesse un po' di luce su quel mare carogna.
Era andata a finire che Gaudenzio, finito di costruire il faro, era rimasto all'Elba. Per il motivo più antico e naturale di questo mondo: aveva conosciuto una ragazza di Chiessi, l'aveva corteggiata come si faceva a quei tempi, ci si era fidanzato e l'aveva sposata. Miseria per miseria, aveva scelto quella dell'isola; ché, tanto, ci si faceva la fame come in Garfagnana, ma perlomeno c'erano un po' di mare e un po' di vigne.
Questo doveva succedere verso il 1890.
Ma Gaudenzio non era tagliato per fare il marinaio o il pescatore; era un montanaro, e un montanaro era restato. Poco dopo sposato, con mille sacrifici aveva acquistato un mulino, che era l'unico della zona; ed era arrivato un po' di benessere, per quanto benessere si potesse avere laggiù, a quell'epoca, per lui, per la moglie e per i figli che erano venuti al mondo uno dietro l'altro. Nel 1929 erano arrivati a nove; quattro maschi e cinque femmine.
I due maggiori tra i maschi si chiamano uno Lorenzo e l'altro Rinaldo; trent'anni il primo e ventiquattro il secondo. Essendo venuti al mondo lì, son diventati pescatori anche se, come è ovvio, sanno fare di tutto: macinare il grano e fare il pane, coltivare la vigna, costruire i muri a secco, spaccare la legna. Il 13 dicembre 1929 è un giorno speciale per tutta la famiglia: Gaudenzio, che non s'è certo scordato di come si fa il muratore, ha costruito infatti un nuovo magazzino per la farina. E' un giorno di festa anche per il paese: con il magazzino, infatti, si potranno accumulare le provviste di farina senza dovere per forza andarla a comprare a Campo, con tutti i disagi del viaggio, specialmente d'inverno. Per l'apertura del magazzino viene scelto proprio il giorno di Santa Lucia; il parroco, don Leto, un còrso arrivato lì non si sa quant'anni prima, tanto tempo da aver dimenticato il dialetto di Propriano dov'era nato, dopo aver detto messa alla Santa, avrebbe dovuto battezzare il magazzino.
Proprio così si faceva: il prete arrivava con l'ostensorio, benediceva la costruzione e l'aspergeva con l'acqua santa. Un battesimo vero e proprio, come si faceva del resto con le barche nuove.
Il giorno prima sembra quasi tornata la primavera.
Un caldo fuori stagione, una giornata bellissima da stare in maniche di camicia, un mare stranamente liscio come l'olio. Tutto quel che ci vuole per pigliare il gozzo e mettersi a pescare. Un po' di pesce fa sempre comodo. La vita è sempre dura, grama, ed ogni piccola cosa va conquistata a fatica, giorno dopo giorno. E poi, magari, si potrà servire un po' di pesce al rinfresco dopo il battesimo del magazzino.
Ci sarà tutto il paese, la festa è di tutti quanti.
I due fratelli, dopo cena, sortono in fretta di casa con pochi arnesi per la pesca. Sono due marc'antoni; il primo è già sposato e ha due figli piccoli, il secondo è appena tornato dal servizio militare. Che durava tre anni. Sortono di casa probabilmente meravigliandosi del caldo che fa, in quel dodici dicembre; alle dieci la sera, quando si va di solito in mare per la pesca, in quella stagione si dovrebbe bubbolare dal freddo e dall'umido, e coprirsi perbene coi maglioni e colle cerate. E invece sembra di stare a maggio.
3.
A questo punto della storia, chi legge deve immaginarsi un gruppo di donne anziane che la racconta, con un vecchio che fa l'eterna figura del guastafeste. E' lui che corregge, che dà il rimbecco alla narratrice principale (le altre aggiungono solo dei particolari), che s'arrabbia se si divaga troppo. Probabilmente è quel che farebbe anche me, in questo momento; ma nel raccontare storie, in quella cultura orale che mi piace spesso pensar di sentirmi sempre più uno degli ultimi ad aver conosciuto di persona, questo è il momento in cui ci si avvia alla catastrofe. E la catastrofe ha bisogno di segnali che ne preannuncino il sopravvenire.
I due fratelli, Lorenzo e Rinaldo, mettono in mare la barca e s'avviano al largo con rapidi colpi di remo; e la Nunzia parla di strani lampi verso la Corsica, e la Bianca racconta di strani rumori che arrivano dal buio; e se c'è Mariabarìle, che non è il soprannome d'una donnona ma si chiama proprio così, Maria di nome e Barile di cognome, a un certo punto compare invariabilmente la Madonna.
Perdonatele quelle donne, ché son tutte morte e sepolte; del resto ci pensava Ulisse, che invece è ancora vivo, a mettersi le mani nei capelli e a dire le cose come stavano sul serio. Era cambiato il vento, all'improvviso. Solo questo. Come succede spesso in mare aperto.
Aveva messo ponente, e una ponentata, da quelle parti, è capace di pigliare un peschereccio bello pesante e di sfracellarlo sugli scogli; figuriamoci un gozzo a remi. Da lontano si sente probabilmente come un sibilo, ma i due fratelli non ci fanno caso; remano come forsennati e, arrivati verso Campolofeno, dove l'acqua è profonda, cominciano a pescare. Ed è una cosa mai vista. Pesci su pesci. E su pesci ancora, di tutti i tipi. Sembra che il mare voglia partecipare alla festa per il magazzino, dando da mangiare a tutta Chiessi, a Pomonte, a Patresi e al Colle d'Orano.
Ulisse interrompe ancora la narratrice: "Ma te lo scordi sempre di di' der detto di Santa Lucia!"; perché, dovete sapere, che all'Elba non si deve mai andare a pescare in quella notte. Santa Lucia è la santa cieca, che toglie la luce del giorno per dar quella dell'eterna beatitudine; e, nella sua notte, il mare da un momento all'altro può farsi inquieto ed agitarsi fino a diventare un nemico invincibile.
Se n'accorge Palmiro Costa, pure di Chiessi, che accortosi del repentino cambiamento del vento ha preso la sua barca e s'è gettato verso i due sciagurati fratelli che, nel frattempo, sono abbagliati dalla pesca abbondante e non si curano delle onde che si vanno accrescendo. Il vecchio Palmiro arriva vicino, e urla: "Venite via, ché c'è maraccio! Tornate a casa di corsa! Fa burrasca!"
Lorenzo e Rinaldo si guardano un po' incerti. Si sono resi conto che il mare si sta alzando, ma non vorrebbero lasciare tanta grazia di Dio. Ma è troppo tardi. Palmiro ce la fa a allontanarsi appena in tempo; il mare è diventato livido, gonfio e prende minaccioso ad incalzare. Le onde sono sempre più forti e scuotono con violenza il piccolo gozzo che sembra un fuscello sbattuto qua e là, senza più governo. I due fratelli sono sgomenti, ma non perdono la speranza: remano con rabbia, arrivano già a metà percorso e presto saranno a casa. Ma non hanno fatto i conti con le secche; e le secche sono proprio davanti a Mortigliano. Fra Mortigliano e le Tombe. Sono quelle secche, le loro tombe.
La povera barca viene rovesciata dalle ondate paurose che si infrangono sulle secche; ma ancora Lorenzo e Rinaldo, scaraventati in mare, non demordono e lottano come possono. Cercano di raggiungere la spiaggia a nuoto, non è lontana; con un mare appena un po' meno tremendo ce l'avrebbero fatta in cinque minuti. Ma non c'è niente da fare. Un'ondata afferra prima uno, e poi l'altro. Sono sbattuti con forza, chissà quante volte, contro gli scogli appuntiti e taglienti come rasoi appena affilati.
Sconciati da una notte di tempesta e irriconoscibili persino ai fratelli, alle sorelle e al padre, così li trovano la mattina dopo. E uno degli altri due fratelli maschi, Francesco, che se ne accorge e va a avvertire il padre e il parroco, che quel giorno avrebbe dovuto benedire il magazzino appena finito di costruire. Il giorno di festa si volta in giorno di lutto. La madre, Beppina, si chiude in casa nel suo dolore che mi piace d'immaginare composto quando duro. In realtà, non ne so niente. Qui sono io, la vecchia che racconta. Sono io il narratore. Vado a ruota libera, oramai.
E vedo, anzi voglio vedere, una processione che attraversa una ripida e aspra montagna che ben conosco, passando per la via dell'Omo che, a un certo punto, si congiunge con quella della Madonna del Monte. Hanno portato due lettighe fatte d'assi di legno e li hanno coperti con dei lenzuoli per riportarli a casa. Non suona nessuna campana, perché la campana a morto rintocca al momento del funerale. La giovane moglie di Lorenzo è chiusa in casa coi bambini, ai quali è stata nascosta la verità; il mare è tornato beffardamente calmo. Un olio. Fa di nuovo quasi caldo.
Così andava, in quei poveri posti capaci solo di generare povere storie. Ora è cambiato tutto; a Chiessi, le antiche case dei pescatori sono state trasformate in bellissime casette per le vacanze. E' un posto incantevole; ma a buttarsi in quel mare bisogna stare sempre attenti.
Esiste ancora il magazzino costruito da Gaudenzio, quel magazzino che non fu mai battezzato in quel tragico e lontanissimo giorno. E' vicino al ponte di legno che attraversa un fosso che scende giù dal monte Giove.
Esiste ancora una lapide, a Marciana, che Gaudenzio pagò e fece scolpire anni dopo per ricordare quella notte di Santa Lucia. Ma è sbiadita dal tempo, oramai. Chissà per quanto ancora vi si leggeranno i nomi, e quella vicenda raccontata nel pomposo stile dettato, chissà, da un maestro di scuola o da un prete. Arriverà il giorno in cui, di questa storia, non si ricorderà più nessuno; quelli che l'hanno vista sono morti, quelli cui l'hanno raccontata sono morti e quelli cui è arrivata per le strade del tempo, moriranno senza averla potuta mai raccontare.
venerdì 22 giugno 2007
Due novembre
E chi si lamenta della "malasanità" di oggi, avrebbe dovuto vedere l'ospedale di Piombino di allora, prima che costruissero quello nuovo. Che era già migliore di quello di Portoferraio. Quelle vecchie costruzioni che già dall'esterno puzzavano di dolore e sofferenza, quei corridoi tetri, quelle suore bianche o nere che giravano sempre con la solita ghigna da Diononesiste. E le lampade sopra il letto, tutte uguali, con il gambo che sortiva fuori dalla parete; e gli oggetti sui comodini, i biscotti, la radiolina, la settimana enigmistica, il giornale.
E il ritorno, poi. Due novembre, orario invernale dei traghetti. Due soli in servizio, l'Aethalia e il vecchio Calimero. Che in realtà si chiamava "Elba Prima", ma che tutti, da una vita, chiamavano "Calimero" perché aveva le fiancate mezze dipinte con la vernice nera. Calimero, il pulcino nero; doveva reggere già l'anima coi denti quand'era nuovo, ed era oramai decrepito. Ma o pigliar quello, o restare lì. D'inverno le corse finiscono presto. Dalle otto la sera alle sei la mattina, l'Isola d'Elba era davvero un'isola in mezzo al mare, e se ti sentivi male dovevi sperare nell'elicottero dei carabinieri, o in una motovedetta della capitaneria di porto.
Quindici persone su tutto il traghetto. Un tempo infame e un mare come i monti, come non se ne vede spesso in quel tratto di venti miglia. A metà canale di Piombino, lasciato oramai alle spalle il continente e senza vedere l'Elba, il Calimero decide di dare forfait: l'elica si inceppa e il traghetto comincia a girare in tondo. E, il bello, è che la nave è stata -come recitano le placche a bordo- costruita "nel 1951 dai cantieri Giraglia di Monfalcone". Eh sì, proprio una bella giraglia in tondo.
Panico a bordo, di quel panico in mare che non so quanti di voi abbiano mai trovato. Si cominciano addirittura a vedere dei membri dell'equipaggio pronti a calare le scialuppe di salvataggio; mia nonna che prega, ebbene sì. Io che, come ogni dodicenne, "fo l'uomo", ma che in realtà mi sto cacando addosso dalla paura; e quella maledetta nave che sembra pigliare tutti per il culo girando allegramente in tondo nel mare in tempesta, marcondiro 'ndera.
Alla fine, spunta un rimorchiatore che aggancia il traghetto, dove nel frattempo si sono rovesciate due macchine ma, fortunatamente, non i due camion a bordo; e lo trasporta in rada a Portoferraio, dove ci sono la gente sul molo, l'ambulanza dell'ospedale, i carabinieri e persino un prete, per l'evenienza che dovesse agitare l'ostensorio rivolto al mare ed intonare il requiem aeternam dona eis Domine. C'è un cugino che, fortunatamente, è venuto a prendere me e mia nonna con la sua Prinz, già vecchia allora.
E s'arriva a casa, quasi alle otto la sera. S'era partiti neanche alle tre del pomeriggio. Gli abbracci a casa, mia zia Clara che quasi piange, mia nonna che ripete solo una frase come una litania: "Clara, s'era bell'e morti, s'era bell'e morti, s'era bell'e morti". La cena. Il televisore con lo stabilizzatore. Ma sì, accendiamolo, magari lo dicono pure al telegiornale.
Invece, no. Al telegiornale dicono che Pier Paolo Pasolini è stato ritrovato ammazzato. Massacrato a Ostia.
Silenzio, con le forchette in mano e gli spaghetti a mezz'aria.
Perché anche in quell'isola che aveva smesso da poco d'essere dimenticata da Dio e dagli uomini, si sapeva chi fosse Pier Paolo Pasolini.
E per quella sera si smise di mangiare e si stette tutti zitti, andandosene a letto a cercare di dormire.
Due novembre millenovecentosettantacinque.
Ventinove anni fa.
Oggi si elegge l'imperatore del mondo.
giovedì 21 giugno 2007
Il diritto di ridere
La condanna a morte ha i suoi riti. Tra di essi rientrano i "diritti" del condannato, a partire dalla famosa ultima sigaretta di fronte al plotone di esecuzione. Credo seriamente che qualche condannato non fumatore abbia cominciato a farlo in extremis. Sono sempre ultimi diritti: non solo l'ultima sigaretta, ma anche l'ultimo pasto e l'ultima dichiarazione. Mangiare e parlare. Attività primarie, certo.
Ma ce ne sono molte altre, di attività primarie. E se a un condannato scappasse da cacare un minuto prima dell'esecuzione? Se gli venisse voglia di farsi una trombata dieci minuti prima della forca, non avrebbe il diritto di farla? Si dice che l'ultimo desiderio del condannato a morte debba essere sempre e comunque rispettato: e se avesse il rispettabilissimo desiderio di ammazzare il boia, del tutto primario? Oppure, senza arrivare a tanto: "Condannato, hai un ultimo desiderio?" "Sì, signor boia, vorrei tirarle una pedata nei coglioni". Insomma, anche questi "ultimi" sacri diritti e desideri sono una finzione. Lo stabiliscono loro, quali debbono essere. Prendono tutte le cose più normali della vita e le trasformano in "diritti" sottoposti a approvazione di legge; così è la galera. In qualsiasi modo se ne esca, vivo o morto. Intanto fuma, mangia e fai blablà. Il resto te lo puoi scordare.
Esistono diversi siti, di una precisione quasi maniacale, in cui sono riportati gli ultimi pasti e le ultime dichiarazioni del condannato. Alcuni sono gestiti direttamente dalle amministrazioni penitenziarie dei vari stati USA. Accanto alla scheda personale (crimine commesso, motivazione e data della condanna, data e ora dell'esecuzione) vi sono, appunto, una casella contenente l'ultimo pasto ed un'altra con l'ultima cosa detta. Sono cose interessanti e, mi sia consentito, spesso umoristiche. C'è chi, come ultimo pasto, si è sbafato un intero fast food o quasi; Timothy McVeigh, l'attentatore di Oklahoma City, chiese due pinte di gelato alla menta e cioccolato "Ben & Jerry". Nell'unico altro caso di esecuzione federale, Victor Feguer chiese un'oliva. Una sola. Non la mangiò neppure, se la mise in tasca e ci andò a morire.
La quotidianità, anche qui. Scorrendo la lista dei final meals si vedono tutte le normalissime porcherie che si mangiano e bevono tutti i giorni. Pizze, hamburgers, patatine, pollo fritto, gelati industriali e quant'altro. Il "diritto" è comunque limitato: generalmente il condannato può ordinare "quello che vuole", ma da un posto vicino al carcere e per un prezzo di trenta dollari al massimo. Insomma, non può farsi mandare blinis strogonoff, ostriche e champagne da Chez Maxim's.
Quando si passa alle ultime dichiarazioni, sembra però che le limitazioni di legge siano assenti. E Patrick Knight ne ha approfittato per riappropriarsi di un diritto che finora non era stato mai contemplato: quello di ridere. Ha commesso un crimine orrendo e lo ha confessato. Ma vuole ridere in faccia al boia. Ha chiesto e ottenuto che gli siano inviate quante più barzellette possibile, per "confortarlo e ridurre un po' la tensione" (parole sue). Nessun pentimento estremo, nessuna petizione, nessuna conversione, nessun appello ai viventi, nessuna richiesta di perdono, nessun messaggio d'amore ai propri cari: barzellette. Risate. Sberleffi. Battute. Dead man laughing.
Non può ovviamente avere un computer in cella; un amico raccoglie quindi tutte le barzellette che vengono inviate su un'apposita pagina MySpace, e le recapita in carcere. Knight le legge e le seleziona tutte; quella che riterrà la migliore, a suo insindacabile giudizio, la leggerà prima che gli vengano fatte le iniezioni letali (che, secondo le più recenti inchieste, provocano un dolore fisico terribile). Sarà, in quel momento, già legato al lettino nella stanza di esecuzione. Magari farà scompisciare dal ridere pure chi premerà il pulsante delle tre siringhe; e nessuna legge può impedirglielo. Non sarà una morte indolore, e non solo per la pena fisica. Dall'altra parte ci saranno i parenti delle vittime di fronte all'assassino che muore ridendo. Lo odieranno ancora di più, quell'uomo che ha ammazzato e torturato i loro cari per rubar loro un'automobile, e che non chiede nessun inutile "perdono". "A questo punto, per essere meno solo, mi auguro che ci siano moltissime persone il giorno della mia esecuzione, e che mi accolgano con grida di odio" (Albert Camus, "Lo straniero").
Ridere. Hanno provato ad impedirglielo, sia i parenti delle vittime, sia lo sceriffo della contea dove è stato commesso il crimine (nel 1991); ma il giudice ha risposto picche. Nulla da fare. Il condannato a morte Patrick Knight può dire quello che vuole. "La sai l'ultima". L'ultima sul serio.
Non crediate che io solidarizzi minimamente con quest'uomo; anche perché della mia solidarietà non saprebbe proprio che cazzo farsene (così come dei lumini fuori dal carcere, delle veglie di preghiera, delle campagne internazionali, degli scioperi della fame di Pannella, delle "moratorie" proposte da stati che comunque ammazzano i propri cittadini in mille altri modi). Sarà legato mani e piedi, ma ha trovato un modo estremo, e persino legale, per legare lui tutti quanti. E sarà forse quella, ancor più della barzelletta, a costituire la sua estrema, fragorosa risata.
Destini ridicoli
Ne nacque una divertente discussione sul termine "decifratore"; se, infatti, per "decifrare" si intende dare un esatto valore fonemico a dei determinati segni grafici, l'etrusco è già bell'è decifrato da almeno due secoli e mezzo: si serve, infatti, di un semplicissimo alfabeto greco di derivazione cumana. Autentici decifratori sono stati il celeberrimo Champollion coi geroglifici egiziani e l'architetto Michael Ventris con la "Lineare B". Ma non c'è nulla da fare: la lingua etrusca, ancora, deve essere "decifrata". La statistica fatta da quel professore, su basi che egli garantiva rigorosamente aritmetiche, aveva dato il risultato di 1,75 decifratori all'anno. E giù risate, specialmente sul "virgola settantacinque"; fu proprio allora che, all'improvviso, mi raccontò questa storia. Si avvicinò a uno scaffale, cavò fuori un grosso libro e cominciò a parlarmene; ed è da allora che non mi vuole andar via dalla testa. Non andrà mai via.
Nel 1930, un professore di greco e latino presso un liceo napoletano, tale F.P., appassionato di etruscologia, dopo anni di preparazione riuscì a pubblicare un volume assai corposo dove, a suo dire, veniva irrefutabilmente dimostrato che l'etrusco era un dialetto greco. Come la maggior parte dei « decifratori » di quell'antica lingua, il prof. P. si basò quasi esclusivamente su delle assonanze di parole; questo, naturalmente, non esclude che nell'etrusco siano stati effettivamente individuati numerosi prestiti greci, particolarmente nell'onomastica, ma anche nella terminologia comune (ad es., patna « scodella, patera », gr. patáne, lat. patina; purthne «magistrato, dittatore», gr. prýtanis – ma si tratta di una parola quasi sicuramente di origine preindoeuropea – ; cupe « vaso; capanna », gr. kýpe ecc.; tutti i termini, etimologie comprese, sono ripresi dal Dizionario della lingua Etrusca di Arnaldo d'Aversa, Paideia Editrice, Brescia 1994).
Il prof. P. riempì quasi cinquecento pagine di elucubrazioni e di esempi, fino ad « interpretare » sulla base del greco praticamente tutte le iscrizioni allora note; quelle la cui interpretazione era oramai assodata (non bisogna scordarsi che l'etrusco ci è noto quasi esclusivamente da iscrizioni funerarie, come se un ipotetico archeologo marziano del 40° secolo dovesse ricostruire la lingua italiana con a disposizione solo una ventina di cimiteri) furono, per così dire, « rivoltate » con la ricerca di termini greci dialettali, glosse di Esichio ed altre testimonianze che potessero adattarsi al significato già appurato. Al termine dell'opera, direi quasi ovviamente, il prof. P. inserì una "grammatica della lingua etrusca": anche qui è doveroso dire che certi fatti morfologici dell'etrusco sono stati abbastanza ben chiariti, come la celebre « rideterminazione del genitivo » o « genitivo del genitivo »: Larth-al « di Larth » > Larth-al-s, forse « di quello di Larth ».
Il volume fu accolto con enorme entusiasmo. Il professore aveva alcuni agganci altolocati, particolarmente in Vaticano; naturalmente, visto anche il periodo, alcuni giornali cominciarono immediatamente a parlare dell' "italico genio" che aveva finalmente squarciato le tenebre dalle quali l'etrusco era avvolto. Negli ambienti accademici, invece, il volume del professor P. fu accolto con ovvio scetticismo; ma tutto sarebbe rimasto forse lì, come era già accaduto e come sarebbe più volte accaduto in futuro, se colui che era allora la massima autorità italiana in campo linguistico non fosse "sceso in campo".
Si trattava del celebre professor C.B., una figura invero piuttosto controversa. Trentino di nascita, le sue benemerenze nel campo della ricerca linguistica erano state –e sono tuttora considerate- indubbie; però è anche uno dei principali autori, su precise istruzioni del regime fascista, dell'italianizzazione forzata dei toponimi e dei nomi di persona delle "terre redente". Come è lecito attendersi data la sua origine, infierì particolarmente nell'Alto Adige, o Sud Tirolo; ma non mancò di far sentire la sua "autorevolezza" anche nella Venezia Giulia. E così Brixen diventò Bressanone, Sterzing diventò Vipiteno, Glurns diventò Glorenza, Ajdovsčina diventò Aidussina; e i Mittempergher e i Vodopivec diventarono Mezzomonti e Bevilacqua. Nel dopoguerra, invece, quando già era in età più che avanzata, fu notato –si dice per puro caso- da un famosissimo regista cinematografico che era alla ricerca di un attore non professionista che interpretasse la parte di un pover'uomo licenziato dopo aver preso parte a una manifestazione, ridotto in miseria e costretto infine a chiedere l'elemosina (famosissima la scena in cui, con disperazione e vergogna, si ritrova a tendere la mano ai passanti). Fu subito scritturato. Ancora oggi, la sua foto nel ruolo di quel pensionato campeggia nell'istituto di linguistica dell'università dove aveva insegnato.
Ma torniamo alla storia del professor P. e della sua decifrazione dell'etrusco. Dopo un "battage" notevole in suo favore da parte della stampa, il professor C.B decise di attaccarlo pesantemente. Lo fece dalle colonne della più importante rivista linguistica italiana, e con argomenti irrefutabili dal punto di vista scientifico (sebbene espressi in modo decisamente sarcastico e violento). Ne nacque la solita diatriba sulla « scienza ufficiale » che non riconosce il « genio alternativo », un po' come alcuni anni fa –in altro ambito- accadde con la miracolosa "cura Di Bella"; se il professor P. aveva dalla sua il Vaticano, l'intervento di C.B. fece immediatamente cessare il favore accordatogli dai giornali del regime fascista. C.B. non era uno qualsiasi, la sua "opera di italianizzazione" gli aveva guadagnato le lodi e la gratitudine pubblica di Mussolini, ed un signor nessuno non poteva metterglisi contro.
La storia andò comunque avanti per un bel po'; C.B. attaccava periodicamente, sostenuto dalla « glottologia ufficiale », mentre il professor P. ribatteva con quello che aveva a disposizione; finita la manna dei giornali nazionali, gli rimanevano soltanto pubblicazioni di ambiente ecclesiastico. Ad un certo punto la cosa si trasformò in un vero e proprio massacro, tanto che del caso ebbe ad occuparsi addirittura l'Osservatore Romano, con un articolo in cui si invitava ovviamente alla moderazione e a fare la pace. Ma C.B. insistette, infierendo e strocando definitivamente le ipotesi del professor P. Un'autentica sbugiardatura, della quale, forse, non c'era eccessivo bisogno; le elucubrazioni del professore napoletano erano talmente prive di fondamento che anche un liceale avrebbe potuto controbatterle con efficacia. Il volume del professor P. fu comunque ritirato dal commercio, e sulla vicenda cadde il silenzio più totale; solo poche copie vennero conservate nelle biblioteche nazionali e universitarie.
Silenzio; termine quantomai appropriato in questo caso. Perché questa storia ha una sua conclusione inaspettata e terribile. Nel 1935, dopo la stroncatura definitiva di C.B., il prof. P. si ritrovò completamente squalificato. Letteralmente dagli altari nella polvere. Dovette dimettersi dall'insegnamento a poco tempo dalla pensione, e si deve comunque tenere presente che era un buon classicista impastoiatosi per passione nelle sabbie mobili dell'etrusco e del suo "mistero".
Un giorno di quello stesso anno, il professor P. si chiuse a chiave nel suo studio e si impiccò. Non aveva saputo sopravvivere alla vergogna di essere stato distrutto in una cosa alla quale aveva comunque dedicato una parte importante della sua vita. Non è nota la reazione del professor C.B.; e così il professore napoletano entrò nel novero dei dimenticati, categoria sbugiardati.
Fin qui la storia come la avevo raccontata originariamente sul newsgroup it.cultura.linguistica, seppure con lievi modifiche e integrazioni. Ma c'è una cosa che non ho mai raccontato. Una cosa che è venuta dopo.
Il post originale aveva girato un po' per Internet. In particolare, era stato ripreso da alcune pagine linguistiche di alcuni frequentatori di quel newsgroup. Nell'autunno del 2002, quando abitavo in Francia, una sera ricevetti una strana mail.
Una signora mi scriveva dal Canada, dicendomi di aver letto proprio una di quelle pagine e chiedendomi dove mai avessi sentito quella storia. Si trattava della nipote del professor P. Le risposi con una lunga mail. La signora ne rimase addolorata, e commossa; nella sua famiglia, la vera fine di suo nonno era sempre stata messa a tacere, e a lei stessa, sebbene avesse sempre avuto dei sospetti, le era stato detto che era morto per una malattia incurabile.
Evidentemente la signora, dopo aver letto la storia che avevo scritto, aveva fatto delle ricerche ed era riuscita a risalire al mio indirizzo di posta elettronica (cosa assai facile, dato che non l'ho mai tenuto minimamente nascosto). Le dissi che tutto mi era stato raccontato, molti anni prima, da un mio professore universitario che mi aveva anche mostrato il libro di suo nonno sulla decifrazione dell'etrusco; del resto, di quel professore facevo il nome, ben preciso, nel post originale. Mi chiese se poteva scrivergli per avere conferma e, eventualmente, per saperne qualcosa di più; le risposi tranquillamente di sì, fidandomi del buon ricordo che avevo di quella persona.
Qualche giorno dopo, ricevetti una nuova mail dalla signora P, dove mi diceva che era riuscita a trovare l'indirizzo del professore (nel frattempo divenuto libero docente). Costui le aveva risposto, ma palesemente infastidito; per di più "condendo" la sua mail con considerazioni sul mio conto non propriamente belle. Rimasi sorpreso. Avevo di quella persona, lo ripeto, un ricordo più che positivo; le sue considerazioni su di me mi ferirono. Gli scrissi, quindi, per chiedergli qualche spiegazione; e mi rispose con una mail sarcastica e piena di livore. Al che, in preda alla rabbia, gli spedii qualche riga non propriamente cortese ricordandogli, tra le altre cose, alcune "perle" che aveva infilato in una sua pubblicazione, e pigliandolo neanche tanto leggermente per i fondelli. Lo scambio continuò così per un altro paio di mail; poi, più niente. Dopo qualche tempo ho perso i contatti anche con la signora P.
E' così che va. Nessun'altra considerazione. Il tempo passa e quel che sembrava prima si rivela poi sbagliato. Cancellato il buon ricordo di una persona, senza saperne il perché e senza la coscienza di avergli fatto alcunché di male. Resta solo una storia del quale forse sono stato il tramite, e una vicenda umana dimenticata.
martedì 19 giugno 2007
L'ipercanzonetta
Un paio di giorni fa mi sono ritrovato a leggere una cosa definitiva. Solitaria y final; manca l'ultimo aggettivo della trilogia di Osvaldo Soriano, ma non ce lo metto perché non so se sia una cosa triste; e non lo voglio nemmeno sapere. E' una cosa, una cosa e basta. Diciamo che ha a che fare con una mailing list, dalla quale peraltro provengono, seppure spesso in "coabitazione", molti dei (re)post di questo blog. Ne faccio parte da diversi anni, e non sto qui a ricostruire le fasi della sua storia (anche perché i circa due milioni di lettori del presente blog la conoscono già bene). E' una mailing list dedicata a Fabrizio De André. Bene. Dicevo d'un paio di giorni fa e della cosa definitiva.
La prima è che Fabrizio De André non ha mai unito nessuno, ma che ci ha diviso. Sono altre le cose che possono unire alcuni di noi. La seconda è che la vera linea di demarcazione è la storia di ognuno di noi (e, nella "mail inutile", l'autore parla di alcuni pezzi della sua). La terza è che si sta parlando di canzonette che, in certi casi, riescono a parlare al cuore e far smuovere le mani e le gambe. Ce n'è anche una quarta: "Borghesi, non avete capito un cazzo".
Con questo, non intendo assolutamente abbandonare quel luogo; e mi tocca anche qui affidarmi alle parole dell'autore della "mail inutile". Ci resto per affetto, e perché non mi va di lasciare quel luogo, che è stato sinceramente importante nella mia vita, in mano a certi personaggini che lo frequentano. Capiterà poi di riscriverci qualcosa; capiterà di ridiscutere, capiterà di insultare ed essere insultato, capiterà forse anche di desiderare ancora di affidargli qualche pezzo della propria storia, ovvero della linea di demarcazione. Per il resto, quella che è la mia storia la sto mettendo a disposizione di chi vuole, qui dentro. Il Bignami. Ciascuno giudicherà secondo la propria, di storia.
Una parte non indifferente della mia storia è costituita da un certo anelito giullaresco. Sono toscano, e può darsi che il mio "background" ci abbia la sua parte. Così ho pensato di suggellare questa cosa, dato che vi si parla di canzonette, accettando una sorta di suggerimento contenuto nella "mail inutile". "Sì perché di canzonette si tratta. Canzonette. Come quelle di Salvatore Adamo e quelle di Alfredo Bandelli. Come quelle di Sergio Endrigo e quelli di Claudio Baglioni. Canzonette come quelle di Andrea Parodi, quelle dei Delsangre e quelle di Massimiliano Larocca!"
Così ho pensato di fare una cosa, sebbene niente affatto originale (anzi, tutt'altro): comporre una "ipercanzonetta" tratta da tutti questi autori di canzonette. Così, perché mi va. Le cose che vanno fanno anch'esse parte della propria storia, sono anch'esse componenti della linea di demarcazione. Anzi, ora che ci penso, questo potrebbe essere un ottimo titolo per l'ipercanzonetta che segue.
LA LINEA DI DEMARCAZIONE
Era partito per fare la guerra
per dare un aiuto alla sua terra
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
Di notte solo il vento gli faceva compagnia
E quando infine spunta l'alba
C'è solo vuoto intorno a me
Da quando son partito militare
Sapessi tutto quello che ho passato
E mi fanno compagnia quaranta amiche... le mie carte
anche il mio cane si fa forte e abbaia alla malinconia
La domenica delle salme non si udirono fucilate
il gas esilarante presidiava le strade
E' sul loro ultimo bacio che si chiuse la partita
ed il silenzio cadde come uno schiocco di dita
Ho ballato per ore con quello straniero
lo straniero era Dio, e io non c'ero
La patria non mi animò, per essa non morirò
verso il confine mi guida una stella, nel nome della bella
Ninetta mia, morire di maggio,
ci vuole tanto troppo coraggio
Ma ti diverti a tormentarmi
la notte tu mi fai impazzire
La notte
mi fa impazzire
mi fa impazzire.
Allah Snackbar (3a Parte)
L’invasione ‘slàmica non ha, almeno allo Ali Snack Bar, il volto barbossuto di Osama bin Laden, né quello assai più telegenico di Al-Zarqawi (era ancora vivo al momento della redazione originale del post, NDR). Ha, invece, il faccione paffuto di Fatih Terim. Nonostante le sue recenti disgrazie dovute all’eliminazione dai mondiali di Germania della nazionale turca (proprio da parte della Svizzera), l’ex allenatore della Fiorentina e del Milan è il simbolo più tangibile dell’oramai prossima ‘slamizzazione dell’Europa cristogiudàica. Mamma li turchi! E quale nuova valenza abbia questo secolar grido (al quale non sappiamo se si contrapponesse un analogo annesim, İtalyanlar!) lo si capisce bene dal fatto che l’invasione dell’Ali Snack Bar non tifa per il Thun, per il Basilea o per il Grasshoppers (del Friburgo non parlo neanche, dato che gioca più o meno in una serie corrispondente alla C2 italiana), ma, compatta, per il Galatasaray.
Nelle foto: Fatih Terim in una sua tipica espressione da invasore e una formazione invasiva del Galatasaray.
Ora, questo nome dovrebbe darci da pensare. Galatasaray è il nome di un quartiere di İstanbul; ma non molti, penso, sanno esattamente cosa vuol dire e da quali elementi linguistici sia formato. Ed è del tutto inutile, che so io, che un Fabrizio de André abbia prodotto album interi in genovese per farci vedere che dovremmo essere tutti quanti sulla stessa barca del Mediterraneo, che fra tutti i paesi che vi si affacciano ci sono stati scambi e interazioni di ogni genere (e che tali scambi si sono riflettuti precisamente in tutte le lingue, seppur di origine diversissima, che sono parlate nei paesi mediterranei), che la "religione” è un’emerita puttanata tirata sempre più in ballo in un’epoca dove le puttanate religiose sono assurte a dogmi pressoché intangibili. E non a caso ho nominato De André: il nome Galatasaray è infatti turco-genovese. Galata è il genovese calata, inteso come serie di palazzi e installazioni che si affacciano su una parte del porto (dal fatto che vi si “calavano” le merci sbarcate dalle navi); così la colonia genovese di Costantinopoli aveva chiamato il quartiere dove risiedeva. Ora, chiunque abbia mai messo piede in una città di mare italiana sa che il termine calata è comunissimo, e non solo a Genova; a Livorno c’è la “Calata Mazzini”, a Portoferraio c’è la “Calata Italia” e così via. Il Saray, invece, in turco vuol dire “palazzo, fortezza”; è la parola che è approdata in italiano come serraglio, istituzione tipicamente ottomana (il “caravanserraglio”, insomma), ma la si ritrova anche nel nome di Sarajevo, slavizzato con il suffisso dei cosiddetti aggettivi possessivi e messo al genere neutro. Una sera mi sono messo a spiegare in francese a due avventori-invasori dello Snack Bar l’origine del nome Galatasaray, convinto di fare il ganzino, come si dice dalle mie parti. Il fatto è però che i due (un muratore e uno stradino) lo sapevano benissimo. Uno è arrivato a snocciolarmi sette o otto parole di origine italiana in turco (banyo, franko –pronunciato però fıranko-, fıyasko etmek, eccetera). E m’è toccato starmene zitto, bermi il thè offerto da Ali e incassare la salutare lezioncina.
La Calata Italia (in turco: İtalya Galatası) di Portoferraio, Isola d'Elba.
Dicevamo? Ah sì, il Galatasaray. Nemico giurato del Fenerbahçe. Il bello gli è che, degli invasori-avventori dell’Ali Snack Bar, si e no un paio provengono da İstanbul o dintorni. Per il resto c’è tutta la Turchia, compreso un giovanotto di Kars che si è stupito assai che della sua sperduta cittadina si sia parlato in un famoso romanzo che sta furoreggiando anche in Europa. Ali e la sua famiglia sono originari invece di un villaggio nei dintorni di Antalya la cui foto campeggia accanto al frigobar con la birra Efes e le bibite Uludağ. Non me ne ricordo mai il nome, anche se finisce in –köy; quando ho detto a Ali “oh com’è bello il tuo paese”, mi ha risposto tranquillissimo che non esiste più, dato che è stato raso al suolo dal quarantottesimo terremoto in 200 anni eccetera. Così, sorridendo, in francese m’ha detto che lo avrebbero ricostruito e che prima o poi sarebbe stato nuovamente distrutto.
Una veduta della città di Kars, di cui si parla in un famoso romanzo contemporaneo.
Dunque, parlavamo del Galatasaray. La Juventus turca, insomma (ancora calciopoli era là da venire, NDR). Le altre squadre non contano; e se il Galatasaray è la squadra dell’invasione ‘slàmica, gli juventini siano finalmente coscienti di recare alta la bandiera di Giovanni Sobieski. Perdiana. Altro che Zbigniew Boniek (genitivo: Zbigniewa Bońka).
Quando alla tivvù c’è la partita del Galatasaray tutto si ferma. La cospirazione islamica è operante. Il marciapiede della strada è off-limits per gli occidentali, tranne i pochi che, come me e l'oramai celebre jeune étudiante, hanno ottenuto lo speciale lasciapassare. Gli altri pochi occidentali che hanno accesso allo Snack Bar tifano Galatasaray, come un vecchio friburghese ubriaco fin dalle otto di mattina, con il quale una volta ho tentato di scambiare due parole in francese. Mi ha risposto in una lingua non meglio precisata. Sono allora passato al tedesco, e mi ha risposto nella stessa lingua non meglio precisata. Alla fine, disperato, gli ho sparato le famose dieci parole di turco che conosco, tutte assieme: teşekkür ederim, güle güle, ey türk gençliği (inizio di un famoso discorso di Atatürk), günaydin, kahrolsun Yunanistan! Mi ha fatto un sorrisone sdentato, annuendo con la testa, e si è rimesso a bere qualcosa su cui non intendo indagare.
Mustafa Kemal, detto Atatürk ("padre dei turchi") (1881-1938)
Insomma, per farla breve, appare evidente l’oramai avvenuta islamizzazione di Friburgo, se anche un autentico briacone svizzero capisce meglio il turco del francese o dello schwyzertüütsch (che, peraltro, è da alcuni autorevoli linguisti considerato un puro dialetto anatolico con qualche venatura curda). Ma tutto ciò è niente in confronto all’azione delle nuove leve dell’invasione. Allo Snack Bar ne è presente una assolutamente paradigmatica: nientemeno che il figlio minore di Ali.
Ha quindici anni. Un ragazzo paffutello, di nome Osman (cioè “Ottomano”, eh, dico io). La sua montura tipica, anche d’inverno, consiste in un paio di jeans e nella maglietta del Galatasaray con il numero 10 (sopra c’è il nome del titolare). E’ nato a Piiripurkki, la Confederazione Elvetica gli ha recentemente rifiutato la cittadinanza per la settecentesima volta con tanto di referendum popolare, in Turchia avrà messo piede tre volte in tutto e parla perfettamente il francese, il tedesco, lo schwyzertüütsch e il turco. E’ nell’età in cui un essere umano di sesso maschile ha in mente una sola cosa: il giuoco del calcio. La scuola? Un dovere mattutino, anche se Ali tiene a dirmi sempre che è bravissimo. Le ragazze? C’è tempo. Gli amici? Sì, basta che siano appassionati di calcio. E qui l’invasione e lo scontro di civiltà si fanno cose serie, o miei scarsi lettori.
La lotta di Osman contro la civiltà occidentale si esplica però in modi sorprendenti.
Una sera, ad esempio, ci stavo ragionando (in francese) di calcio, eh. Voleva sapere ogni cosa: per quale squadra facevo il tifo, la storia della relativa squadra, i giocatori più famosi. Il giorno dopo mi ha snocciolato la formazione della Fiorentina che vinse il primo scudetto nel 1956. Nell’ordine esatto dei giocatori: Sarti, Magnini, Cervato eccetera. E’ seguito un resoconto dettagliato, da parte sua, della carriera di Giancarlo Antognoni, compreso l’anno in cui, a fine carriera, giocò nel Losanna. Come ciliegina mi ha detto anche la formazione del Livorno che ha ottenuto la promozione in serie A nel 2004. Io stavo lì, con una birra Efes in mano, a farmi inesorabilmente invadere.
Qualche sera dopo, anche un traditore della civiltà
“Capitale del Sikkim”?
“Gangtok”
Sudorini freddi. Tocca a lui.
“Capitale della Malaysia?”
Ci penso. Sono arrugginito.
“Kuala Lumpur”.
Olé. Tiè, piccolo invasore. Tocca a me.
“Capitale del Suriname?”
“Paramaribo”.
Così, senza neanche pensarci un momento. Ora tocca a lui.
“Capitale dello Swaziland?”
Mannaggia. Come cazzo si chiama?
Ci penso.
Nulla da fare. Non me la ricordo.
Lui sta lì e ridacchia.
Getto la spugna.
Prorompe, alzandosi in piedi: “Mbabane! Mbabane!”
E, una sera qualsiasi, si ha presente finalmente la verità. L’invasione islamica ha vinto. Arrendiamoci. L’invasione passa addirittura da Mbabane: non c’è più niente da fare. Allah Snackbar!
domenica 17 giugno 2007
Allah Snackbar (2a Parte)
Esternamente non avrebbe niente che potesse far pensare ad una tal sentina di perigli innominabili: una porta a vetri, una vetrina con su scritto Snack Bar Ali con le immagini standardizzate del döner kebab, del börek, dei falafel di una catena con sede (mi dicono) in Germania.
Nella foto: La razione minima di falafel per Riccardo Venturi (courtesy of magnocomeuntricéfalo.com)
Ai due lati, il centro culturale Anadolu (la cui attività culturale preferita è la visione continua di partite di calcio, ma sulla cui porta campeggia un tazebao che chiede l'ingresso della Turchia nella UU–Unione Uropèa) e la panetteria turca. Ma già da questo si può osservare facilmente come l'islam abbia invaso il marciapiede destro della strada, dove soltanto il Bar Benfica, portoghese, mantiene eroicamente un avamposto della civiltà occidentale dalle radici giudaico-cristiane, preparandosi sempre a novelle Lepanto quando si gioca Benfica-Galatasaray.
Andrea Vicentino: La battaglia di Lepanto. Venezia, Palazzo Ducale.
Nella sua battaglia può senz’altro contare sulla via parallela, baluardo di cristianità con la churrascaria portoghese O Carvão("Il carbone") e con il negozio di alimentari italiani della famiglia Di Liddo (all’interno del quale campeggia un ritratto, ebbene sì, di Silvio Berlusconi).
Ma è soltanto dopo essere penetrati furtivamente all’interno che si capisce bene la vera natura di quel sedicente snack bar. Ho ottenuto una specie di amichevole lasciapassare per entrarvi senza dare nell’occhio, sciorinando le dieci parole di turco che conosco e contando sul mio aspetto tipicamente mediorientale; il proprietario, un ometto gentilissimo di una cinquantina d’anni e passa, che vive al piano rialzato assieme a tutta la sua numerosa famiglia, ha deciso di rendermi un suo prezioso alleato nell’invasione dell’occidente. Ebbene sì, sono passato dall’altra parte. Sono un (peraltro felicissimo) traditore della nostra civiltà, oh yeah.
Nella foto: La jeune étudiante dont je suis tombé amoureux comme un fou e una sua amica della Val di Blenio (Canton Ticino) fotografate all'interno dello Ali Snack Bar.
L’interno del bar consta di qualche tavolo, di alcuni orripilanti murales bucolici che un bimbetto di terza elementare avrebbe sicuramente meglio dipinto coi pastelli a cera, di uno scaffale dove si trovano in vendita prodotti conservieri turchi (dolmas, peperoncini sott’olio, biscotti, pomodori secchi, il thè e altre cose), di un frigobar con la birra Efes ("Efeso"), le stucchevoli bibite gassate Uludağ e l’immancabile Gazı (che sarebbe un “boh” dal sapore di yogurt salato, da bere gelato), di un impianto stereo risalente all’epoca d’oro della discomiùsic e della tivvù. E quella è una cosa seria. Ma seria sul serio. Però ne riparleremo più in là.
C’è il bancone, al quale si alternano Ali, la moglie e qualche figlio o figlia (uno dei figli, credo il maggiore, è anche il fornaio dell’attigua panetteria); nel bancone fanno bella mostra di sé altri prodotti più o meno freschi. Il pane, però, è sempre fresco per forza di cose, dato che deve fare un percorso di circa tre metri dal forno. Si vendono anche sigarette (con il tipico Automat svizzero) e c’è la bacheca dei giornali: La Liberté, quotidiano friburghese in lingua francese, la sua copia conforme in tedesco Freiburger Nachrichten e lo Hürriyet in turco. Io leggo sempre e solo quello. Oddio, leggere è una parola grossa, dato che riesco a capire o a intuire una parola su trenta, aiutandomi magari con le foto. Però la pseudolettura di un giornale turco è un’esperienza che va fatta. Innanzitutto si nota la quantità abissale di pubblicità di ogni tipo, affidata perlopiù a graziose signorine seminude e rigorosamente bionde. Le pagine con le notizie sono alternate a paginoni di pubblicità, mentre i titoli sono a caratteri cubitali; le uniche pagine dove non si osa inframezzare réclame sono quelle sportive, cioè calcistiche; e, in questo, l’invasore islamico è perfettamente in sintonia con il baluardo cristiano portoghese. Calcio, calcio e ancora calcio. Alle pareti del bar è attaccato con lo scotch il calendario del campionato turco; e se mi decidessi a imparare un po’ quella (bella) lingua, scoprirei probabilmente che il 96% delle discussioni tra gli avventori sono a base di football. E il restante 4%? E’ ovviamente quello che conta. Il calcio serve a coprire quel 4% dove si ragiona di Al-Qaeda, del prossimo attentato (probabilmente all’allenatore della nazionale elvetica, Kobi Kuhn, dopo quel che è successo a İstanbul il 16 novembre 2005…), di strategie di progressiva conquista.
Dicevamo che io e la jeune étudiante siamo tra i pochi occidentali traditori cui è permesso varcare la soglia del bar. Il pretesto è, ovviamente, quello di mangiare qualcosa (sbafando fino all’ultima goccia anche le salsine), di bere un caffè, o meglio un thè turco, che se uno ha da passar la notte a lavorare è assai più efficace del caffè; pretesto suffragato dal fatto che Ali, con grande complicità, ci offre sempre un paio di baklava a gratis, non ci fa pagare il caffè o il thè se abbiamo mangiato, e comunque ha sempre un pensiero gentile. Tranne quando c’è anche la moglie. Quando c’è lei non osa, e bisogna pagare tutto fino all’ultimo centesimo. La signora deve mandare avanti una famiglia numerosa, e non c’è verso di sgarrare; ma, guardandoci, Ali allarga sempre le braccia con un gesto eloquente, quasi a chiederci scusa alzando gli occhi al cielo. Va da sé che ciò conferma le voci sempre più frequenti di un’attiva partecipazione delle donne all’invasione.
Gli avventori-tipo sono quasi tutti giovani turchi di sesso maschile di età compresa fra i 18 e i 40 anni. Anche perché c’è la tivvù. La tivvù è imprescindibile. Rimane accesa 24 ore su 24. Sintonizzata con la parabola su una serie infinita di canali turchi che trasmettono calcio, calcio, calcio e videoclip di canzoni turche.
E qui mi sia concesso di aprire un’altra parentesi relativa proprio ai videoclip turchi, un’altra esperienza di vita che ritengo altamente formativa anche e soprattutto dal punto di vista della prevenzione dello scontro di civiltà, mettendo in luce gli aspetti socioetnologici di una società islamica integralista e dedita alla preventivata distruzione del mondo occidentale.
Il videoclip-tipo di una canzone turca si compone di un uomo coi baffi sui 40/45 anni in giacca e cravatta. La giacca non è necessaria, ma la cravatta è indispensabile. Tale uomo deve essere abbandonato dalla moglie o dalla fidanzata, la quale è prosperosa (le taglie 42 non vengono apprezzate in certi luoghi assai civili), possibilmente bionda o tinta di biondo e indossa abiti svolazzanti che ne mettono in risalto le curve tutte al loro posto. L’uomo coi baffi e la cravatta canta una canzone in modo assai accorato, con ripetuti flashback su quando la coppia era felice (situazione tipo: lui e lei si abbracciano e si baciano castamente camminando o correndo a piedi nudi sulla riva del mare). Di nuovo carrellata sulla discesa agli inferi del pover’uomo: lo si vede ad ubriacarsi in qualche locale malfamato, dove molesta donne di dubbia moralità venendo poi scatasciato a manate, preso a calci nel culo e infine sbattuto fuori con piroetta sul selciato. In alcuni video particolarmente crudeli gli viene fatta subire la suprema onta del taglio della cravatta.
Altro flashback: l’ex moglie, ex fidanzata o ex amante è adesso a bordo di una lussuosa automobile assieme a un tizio dall’aria squalesca, più anziano ma sempre coi baffi e in giacca e cravatta. Ritorno al baffuto abbandonato, che canta a squarciagola tek, tek; ma non sta meditando di affogare il suo dolore nel commercio del legname. Tek, tek vuol dire solo, solo in turco. Il videoclip e la canzone si concludono su un ponte, con il tizio che guarda sconsolato. Mediterà di porre fine alle sue sofferenze gettandosi nel vuoto e spiaccicandosi sull'asfalto? Non lo sapremo mai. Ma sarei capace di guardare videoclip di canzoni turche per ore e ore.
Mahzuni Şerif, cantante turco coi baffi e la cravatta.
(2 - continua)
venerdì 15 giugno 2007
Allah Snackbar (1a Parte)
PRIMA PARTE: Il background friburghese.
Veduta di Friburgo e del fiume Sarine/Saane.
Quando parlo di Friburgo, la prima e necessaria cosa da dire è che si trova in Svizzera, esattamente sulla diagonale che unisce Losanna e Berna. Alla domanda, per me frequente: “Dove stai ora?”, ed alla relativa risposta: “A Friburgo”, in novantanove casi su cento la conversazione contiene un Ma come ti trovi in Germania? Al che mi tocca spiegare che vivo nella Friburgo svizzera, altresì detta Fribourg in francese (e, ovviamente, Freiburg in tedesco), mentre nel canton Ticino, con mossa distintiva decisamente opportuna, molti la chiamano Friborgo. Insomma, non è la Friburgo tedesca (con la quale però condivide la targa automobilistica, FR, venendosi così a creare un patto d’acciaio immatricolatorio Friburgo svizzera-Friburgo tedesca-Frosinone), la quale è im Breisgau, cioè in Brisgovia; e quella “Brisgovia” a me ricorda tanto uno di quei mitteleuropäische staterelli immaginari dei vecchi filmoni degli anni ’30, tipo Il prigioniero di Zenda. Togliete Zenda e metteteci la Brisgovia, e il gioco è fatto.
Aggiungo che spesso, tra me e me, e sfruttando una consuetudine che avevo con qualcuno, ho preso a chiamare la città con il suo, del tutto ipotetico, nome finlandese, cioè Piiripurkki.
Ma com’è, insomma, questa Friburgo/Friborgo/Fribourg/Freiburg/Piiripurkki? E’ un’antica cittadina capocantonale, d’origine medievale (è stata fondata nel 1257 dalla dinastia degli Zähringen), sede d’antica e prestigiosa università cattolica. Ha 33.000 abitanti, ed è situata in una posizione assolutamente splendida, incassata in un vero e proprio canyon formato dal fiume Sarine (o Saane, in tedesco) alla confluenza dell’altro canyon formato dal torrente Gottéron (Galtern in tedesco). Sono dei luoghi naturalisticamente e paesaggisticamente magici, non voglio avere mezzi termini. La passeggiata nelle gole del Gottéron, che parte dalla Basse Ville friburghese, è una delle cose che resterà nella mia vita. Gli altri dintorni sono altrettanto magnifici, così come magnifica è la parte antica della città, sia alta che bassa.
Le gole del Gottéron e Friburgo in una stampa del 1839.
Vi direte forse: “Bello, bello, bello. Ma tutto questo sembra un opuscolo della pro loco di Friburgo. Cacchio c’entra con l’Allah Snackbar del titolo?…” Tempo al tempo. Io sono uno che se la piglia sempre e estremamente comoda.
Continuando quindi a lavorare con lentezza, parliamo un po’ dei friburghesi.
A Friburgo buona parte della popolazione sono studenti universitari; ed è il motivo per cui, seppur indirettamente, sono finito da queste parti. Scercè la famm: je suis tombé amoureux d’une jeune étudiante. Ci sono preti e monache d’ogni tipologia (la città è tenacemente cattolica, malgrado la presenza di una discreta comunità protestante), tanto che la jeune femme di cui sopra ha coniato “ad hoc” i termini di preteto e suoreto per i numerosi luoghi ove allignano; ci sono, poi, i friburghesi più o meno DOC. E Friburgo, città tranquilla è. Anzi tranquillissima. E totalmente bilingue, anzi trilingue. Sui friburghesi non ero stato capace di esprimere un giudizio sensato finché la casuale lettura, al chiosco della stazione ferroviaria (distante due minuti a piedi da dove abito), di un libriccino dedicato a uno dei più celebri figli di questa città, il pilota automobilistico Jo Siffert, non mi ha illuminato. Il libriccino è stato scritto da uno svizzero, il quale, parlando degli inizi della carriera di Siffert, mette in risalto la sua natura esuberante e avventurosa che contrastava decisamente col carattere dei suoi concittadini. “I friburghesi”, scrive, “sono noti per la loro natura tranquilla e riservata, da molti considerata scontrosa”. Insomma, dei musoni persino per gli standard svizzeri (che, peraltro, almeno in certi posti sono tutt’altro che musoni; mi sia permesso di sfatare un po’ questa cosa, e si sa che son venuto al mondo come sfatatòio). Però nella frase del biografo dello sventurato pilota di formula 1 (morì a soli 31 anni in un terribile incidente avvenuto sul circuito inglese di Brands Hatch) c’è del vero. I friburghesi, in generale, non brillano per socievolezza. Gli studenti pensano a studiare, e decisamente non è in vista un nuovo ’68 che parta da qui. Il clima è quello che è, con il lungo, nebbioso e nevoso inverno dell’altopiano transalpino. Cattolici e musoni; ci sarebbe forse di che scappare. Però io sono un animale adattabile, quando si è naufraghi è una condizione irrinunciabile; quindi, tutto sommato, anche a Friburgo ho imparato dopo alterne vicende a trovarmici bene.
Joseph ("Jo") Siffert (1940-1971).
Però, d’amici o semplici conoscenti friburghesi neanche l’ombra. A volte m’è venuto in mente che i friburghesi, in fondo, non esistono, che sono una categoria dello spirito. Oppure che ci vorrebbe di nuovo una bella guerra di religione tra cattolici e protestanti per far tornare fuori il loro spìrto guerrier, come nel 1849 (!), quando la città fu in preda a una vera e propria guerra civile con tanto di arcivescovi cattolici bruciati in piazza. Darei non so che per assistere al rogo di un arcivescovo; che ci volete fare, son fatto così.
Questo, in realtà. sarebbe il rogo di Jacques de Molay, avvenuto nel 1314. Ma basta immaginare Bagnasco al suo posto...
Insomma, gli unici conoscenti o amici che mi sono fatto sono alcune studentesse ticinesi, che propriamente sarebbero amiche della jeune étudiante dont je suis tombé amoureux comme un fou; una rara pianta di erniaria di cui s'è già parlato; la signora polacca che abita al terzo piano; e Ali e la sua banda dello snack bar della strada dove abito. Ali è turco. Lo snack bar è turco. A Friburgo, ovviamente, c’è una marea di turchi. E di portoghesi, compreso il mitico Jesus dell’impresa di pulizie, che va in giro con un furgone dove campeggia la scritta Jesus Nettoyages ("Pulizie Gesù"). Il quartiere dove abito, nella parte più alta della città, è quartiere turco e portoghese, di churrascarias e centri culturali anatolici, di Bar Benfica davanti a Istanbul Alimentation Générale. Ma qui vorrei parlare dello snack bar di Ali, nell’ottica dell’invasione islamica e dello scontro di civiltà teorizzato da Huntington o da Pipes. Un luogo pericolosissimo, una vera e propria testa di ponte che io e la jeune étudiante frequentiamo regolarmente (anzi, ad essere precisi costei lo frequenta da ben prima di me, abitando qui da ben sei anni). Allah Snackbar, appunto.
(1. Continua)
mercoledì 13 giugno 2007
Il cesso del re
Qualche anno fa abitavo nell’estremo nord della Francia.
Ero stato chiamato da un piastrellificio per una traduzione. Fin qui nulla di strano, mi è successo molte altre volte di essere chiamato a fare una traduzione scritta direttamente in un’azienda. E’, anzi, una cosa che mi piace e che mi diverte, oltre a rendere più facile la traduzione (potendo contare su dei tecnici che spiegano, all’occorrenza, il significato esatto di una parola). Per farla breve, una data mattina d’autunno, già con un freddo polare, presi la macchina seguendo le indicazioni che mi avevano dato al telefono. Mi avevano detto che la fabbrica si trovava “vicino alla frontiera belga”; ma non era esattamente così.
Lasciata la strada dipartimentale, mi toccò girare in una specie di viottola di campagna, di quelle col pavé rese celebri dalla corsa ciclistica Parigi-Roubaix. A un certo punto vidi, con sollievo, il piastrellificio; solo che, senza che ci fosse nessun avvertimento, nessun posto di guardia, manco una baracca con un doganiere scalcagnato, mi ero ritrovato non “vicino alla frontiera”, ma esattamente sulla frontiera. Me lo confermava un cartello arrugginito con su scritto “BELGIQUE”; voltandomi un momento, vidi che alle spalle avevo un cartello, ugualmente arrugginito, ma blu, con su scritto “FRANCE”.
Scesi di macchina tirandomi su il bavero del cappotto, perché si gelava. Ero completamente solo. Davanti a me, un bosco vagamente inquietante; per il resto, campi di terra grigia a perdita d’occhio. Solo nel plat pays di Jacques Brel, davanti a un piastrellificio che sembrava sortito dal nulla. Non una casa. Nemmeno un cane. Più che alla frontiera tra Francia e Belgio mi sembrava di stare alla frontiera dell’irreale; mi ci vollero cinque minuti e due sigarette fumate una dietro l’altra per rendermi conto che il capannone rettangolare era per metà da una parte e per metà dall’altra. Rimontai in macchina e entrai lentamente dentro il cancello.
Venni accolto da un signore molto gioviale e fatto entrare nel capannone. Non stavo sognando: quello era davvero un piastrellificio, e c’erano degli operai che stavano producendo piastrelle. C’erano dei macchinari in funzione. Andando verso gli uffici, non potei trattenermi dal fare la domanda fatidica: “Mi scusi”, chiesi al signore gioviale, “…ma ‘sta fabbrica…” Non mi fece neanche finire la domanda. “E’ in Francia e in Belgio. E’ in tutt’e due. E’ quello che mi chiedono tutti quando entrano la prima volta qui.” E si mise a ridere. “La vede l’impastatrice laggiù? E’ in Francia. E la fornace laggiù? E’ in Belgio.” E giù ancora risate. “Però le tasse le paghiamo in Belgio e basta, costa di meno”, è giù un’altra salva di risate. “La corrente elettrica è francese dell’EDF, quella belga non ci arriva. L’acqua invece è belga perché ci abbiamo l’allacciamento all’acquedotto di Tournai. Le linee telefoniche sono francesi, invece. Però ci abbiamo anche un numero belga.” E risate su risate. Gli uffici erano ricavati all’interno del capannone. Proprio sulla porta a vetri, c’era appiccicato con lo scotch un foglio di carta. Qualcuno, col pennarello blu, aveva fatto la frontiera. Mi misi a guardare.
Sempre ridendo, il signore gioviale mi spiegò la cosa in due parole: “Due anni fa è venuto un geometra francese a fare dei rilievi catastali e finalmente ha stabilito dove passa la frontiera dentro il capannone. E’ proprio qui. Ora entriamo negli uffici. L’ingresso è in Francia. La stanza dove la metto a lavorare al computer è in Francia. Se però le scappa da pisciare, deve andare in Belgio: il gabinetto è laggiù in fondo a quel corridoio. La macchinetta del caffè ha in Francia i bottoni del thè e del cappuccino, mentre quelli del caffè espresso e del caffè lungo sono in Belgio.” L’avevano sistemata esattamente davanti alla porta d’ingresso. Un caffè di frontiera. Ma di quelli sul serio.
Fui accompagnato nella stanza con il computer, dov’ero totalmente solo. C’era da fare la traduzione, urgente, delle istruzioni d’uso per un macchinario. Dal tedesco al francese. Cacciai fuori dallo zaino i dizionari e mi misi al lavoro; non c’era nemmeno bisogno di andare a scomodare qualcuno per farsi spiegare, perché i termini li conoscevo. Un’ora dopo, ecco arrivato il momento. Le dieci. Il bisognino di metà mattinata, puntuale come un orologio. Dovevo andare in Belgio. Insomma, al cesso. Uscii dalla stanza e mi avviai per il corridoio; dovetti passare la frontiera. Una frontiera inesistente. Come tutte le frontiere, del resto. Ma chi cavolo ce le ha messe? Sbrigandomi, perché la cosina cominciava a essere urgente, cominciai a fare uno di quei ragionamenti che non si spiegano mai a nessuno, una di quelle migliaia di cose che ogni giorni si dicono a se stesso, nella testa, e che non vengono mai fuori. Se inciampavo nella parte del corridoio prima della frontiera e mi slogavo una caviglia, doveva intervenire l’ambulanza dei più vicini pompieri francesi. Se inciampavo dopo, mi sarebbe toccato aspettare la croce rossa belga. Se ammazzavo il signore gioviale da una certa parte del corridoio, mi mettevano in gattabuia in Francia; se lo ammazzavo dall’altra parte, sarei andato in galera in Belgio. E se lo ammazzavo esattamente sulla linea di frontiera, davanti alla macchinetta del caffè? Forse sarebbe stato il delitto perfetto. Senza giurisdizione. Non avrebbero mai potuto squartarmi, mettere metà Venturi in una prigione belga e l’altra metà in una francese. Ogni essere umano è indivisibile. Peccato che si diverta a creare divisioni irreali. Linee immaginarie. Quel corridoio me lo fece capire definitivamente.
Finalmente entrai nel cesso. Mi misi a sedere sulla tazza. La liberazione! Si dice che Beethoven componesse sul vaso, ma mi mancava momentaneamente la carta da musica. C’era invece un rotolo di carta igienica grigia, e ruvidissima. Fu lì, guardando quel rotolo, che ebbi la rivelazione. Ero sul cesso del re.
Poco prima ero nell’ufficio di un presidente della repubblica. Sotto la giurisdizione di Jacques Chirac. Lavoravo sull’ultimo lembo del suo territorio. Della sua polizia. Dei suoi ordinamenti. Delle sue galere. Mi era scappato da cacare, e mi ero ritrovato nel cesso del re del Belgio (non ricordandomi come si chiamava quello attuale, ricorsi al defunto Baldovino). Sul primissimo lembo del suo territorio. Della sua polizia. Dei suoi ordinamenti. Delle sue galere. Traducevo in una repubblica e cacavo in una monarchia. Due stati differenti. Stati. La parola “stato” è una definizione assoluta. E’ il participio del verbo “essere”. Qualcosa che è e per la quale non si deve chiedere spiegazione, anche perché chiedersi il perché della sua esistenza è pericoloso. Minimo ti prendono per un sovversivo. Sovversivo è colui che chiede ragione di esistenze che non hanno nessun motivo di esistere.
Prima di pulirmi il culo e di tornare a tradurre in territorio francese, feci in tempo a pensare a tutte quelle frontiere piene di reticolati, di gente in armi, di muri invalicabili. Mi venne a mente l’immagine dei soldati tedeschi che abbattevano una barra di frontiera polacca la mattina del 1° settembre 1939. Richiusi la porta del cesso del re. Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà.