martedì 1 gennaio 2008

Cosa resta di Vienna


Secondo i progetti estivi, in questo momento sarei dovuto essere a Vienna; invece sono a Firenze. Nel mio solito sgabuzzino -con la speranza di smantellarlo molto presto- e di ritorno da tutt'altre plaghe. Tutta una direttrice tirrenica dalla Liguria al Lazio, diciamo; la musica all'inizio, il calore dell'amicizia e della condivisione alla fine, e nel mezzo una sosta che mi ha regalato persino una cosa del tutto inaspettata in un tramonto limpidissimo, un'immagine da lontano dell'Isola e un saluto che le è andato.

Ma non voglio né parlare, né raccontare di come io abbia passato queste giornate, queste ultime giornate di un anno bizzarro. Uno di quegli anni che non saprò davvero mai come definire. Non i terribili 1993 e 2002; forse un sunto di tutta la mia vita, una summa in cui tutto il bene e tutto il male si sono fatti vivi. Prima di partire mi era venuto a mente che sarebbe stato il primo capodanno da trent'anni a questa parte in cui, alla mezzanotte, non avrei scambiato un bacio con una persona più o meno amata; così è stato. Si è chiuso davvero un ciclo, ne dovrebbe cominciare un altro. Così si dice sempre!

Sono cose mie, certo. Pensieri che si affacciano, o che volteggiano. Li chiudo adesso in una scatola e li metto in qualche cassetto. Giornate in cui mi sono fatto incredibili dormite, persino in automobile, sconcertando amici per la mia abitudine di stare in bagno tempi paragonabili a quelli di Wanda Osiris (parole testuali) e di farmi due o tre docce al giorno. Che dire. Nulla. Non saprei proprio cosa dire, a parte che sotto una doccia calda mi sento bene.

Mi sono comprato, al mercato di Porta Portese, una giacca e un cappello. Non l'ho mai avuto prima, un cappello. L'ho visto a un mio amico, e me ne sono invaghito. Sinceramente non ho la faccia adatta a portarlo, mentre lui ce l'ha perfetta. Ma non me ne importa nulla, mi piace e basta. Magari, chissà, la mia faccia cambierà; il tempo passa, mi ci vorranno capelli un po' più lunghi e forse anche un po' più grigi. Mentre compravo il cappello sono venuto persino a sapere che ho composto Borghesia, canzone prima erroneamente attribuita a Claudio Lolli. L'ha detto una radio e ne sono stato informato. Su qualche sito di testi mi si attribuisce anche Auschwitz di Guccini; mi chiedo quale sarà la prossima. Se posso scegliere, spero che prima o poi mi becchino come autore di The Sound of Silence, ma forse, stavolta, chiedo troppo.

Cosa resta di Vienna? Ecco, stavo giusto parlando di Vienna, di una Vienna che mi sono dimenticato prima di partire. La scorsa estate, durante i progetti, avevo ritirato fuori un vecchio volume del Touring Club dedicato alla capitale austriaca, con una copertina rigida di colore grigio. Me lo volevo leggere perbene, fantasticando di spiegare la città a una persona che non c'era mai stata; è andata a finire, poi, che la sua copertina dura si è prestata alla perfezione a fare da "base" per la Settimana Enigmistica. Ho cominciato a portarmi ovunque quel povero volume, che si è ridotto a un concio. Spaginato, con la costola scollata, pieno di probationes pennae si bona sit. In un certo senso, Vienna ce l'ho sempre dietro; almeno finché esisterà un water dove sedermi coi miei giochini. A ognuno la sua pace, e la mia dev'essere davvero poverissima. In omnibus rebus pacem quaesivi, et nusquam inveni nisi in cacatorio cum cruciverbis. Scusa Umbe', eh, ma qui la parafrasi ci sta che è un bigiù.

Mi son passati sopra gli avvenimenti, o forse ci son passato sopra io (o di fianco, o sotto, o di lato). Devo avere battuto il record di poche parole in questi giorni. E che c'è da dire, del resto; chi mi conosce, di me sa già tutto. Sa quali sono i miei punti deboli, sa come pigliarmi per i fondelli, sa dove vado più o meno sempre a parare. A volte, come tutti, ho la sensazione di essere sopportato; a volte, come tutti, ho la sensazione che mi si voglia almeno un pochino di bene. A volte poi, come tutti, ho la sensazione di essere eternamente altrove, senza sapere peraltro esattamente dove. A Vienna? All'altro capo del telefono? E chi lo sa. A un certo punto mi sono ritrovato in una strada con il nome di un mare, o di un oceano; era mezzanotte, mi abbracciavo con delle persone, auguravo bonanno e bonecose e felicità, le stesse cose che auguravano a me.

Poi oggi pomeriggio, prima di partire, mi sono messo su un divano. A sonnecchiare e a leggiucchiare un libriccino di Camilleri, che non avevo mai letto; Il gioco della mosca, si chiama. Andrea Camilleri, lo riconosco, è il mio ingenuo "modello di scrittura" –pregasi d'usarmi la cortesia capodannesca di limitarsi a un benevolo sorriso-; il problema è che il toscano, a differenza del siciliano, tende a essere comico, a non creare pathos. Il siciliano di Camilleri, che è oltretutto un grande scrittore, lo sa creare; o meglio, sa creare quell'alternanza di tragico e di ironico, di terribile e di leggero, di maglio e di piuma che non ho quasi mai visto in altri linguaggi, nemmeno nell'impasto di Gadda. Una delle mie ingenuità, o forse dei miei giochi impossibili, è tentare di dare al toscano, livornese o fiorentino che sia, un minimo di questa capacità. All'anima, eh. Ma questo era un excursus.

Nel Gioco della mosca, Camilleri prende dei detti siciliani, e vi fabbrica sopra delle cose. Dei ricordi, delle osservazioni, soprattutto delle storie. Una di queste mi ha colpito talmente che vorrei rubargliela per tre minuti e trasferirla all'Elba. Nel quasi dormiveglia in cui l'ho letta non mi ricordo neppure il detto siciliano da cui era nata; ma non importa.

C'è un uomo, che nella storia di Camilleri ha un nome; io lo chiamerò Peppino Danesi (e ce ne sono, o ce ne sono stati, almeno quattro, di Peppino Danesi, a Marina di Campo). Si sposa con una ragazza come dire, di 'velle che sembrano nate pe' addesà ir letto e magari d'unn'addesallo nimmeno; e sì che nel'avèveno detto a Peppino. Nulla da fa. Però, dopo dieci giorni di matrimonio, Peppino si ritrova nir mezzo d'un fatto pòo bono e lo vengano a piglià i carabinieri, e lo mèttano in galera. La sposina ni resta fedele pe' quarche mese, poi comincia a vedé' un giovanotto e poi un artro e poi un artro ancora, e poi mezza Marina di Campo. Dè, o ir su' marito 'un lo viene a sapé a Portolongone dove l'hanno rinchiuso? Ma non dice nulla. Sta zitto. Chiede solo che la su' moglie 'un lo venga più a trovà' ar parlatoio.

Esce dopo diecianni e torna dalla moglie, che nir frammanco s'era continuata a vedé co' tutti i ganzi che ciaveva. L'amici ni chièdeno perché, e lui dice che a lui la su' moglie ni garba troppo, che la desidera, che ci vuole andare a fare l'amore; e l'amici lo guardano male, pensano che sia un debole, un ometto che avrebbe dovuto fa' casamicciola e invece accetta tutto pe' chissaccosa. Amore? Voglia? Amore e voglia? Questo Camilleri non lo dice; però io in gattabuia pe' diecianni non ci sono mai stato e non mi riesce di figurarmi cosa farei in un frangente del genere.

Finché, un giorno, Peppino non affronta l'amici e ni dice: Guardate, io la mi' moglie me l'ero potuta gòde troppo pòo e lo sapevo che fedele non mi poteva rimané'. Quando so' uscito ci so' tornato, però ci so' tornato come amante. Entro dalla finestra, come fanno l'amanti. Me lo sapete dì' voialtri, da dove entrano i mariti? Dalla porta o dalla finestra? Dalla porta, ni rispondeno 'velli. Ecco, dice Peppino; tutti i ganzi della mi' moglie so' sempre entrati dalla porta, come fossero i mariti. Io entro dalla finestra, come l'amante. I cornuti so' loro.

E l'amici 'un ni dìsseno più niente, e Peppino Danesi diventò quasi un eroe, o quantomeno una persona che godette di grande considerazione e onore. Magari, e chi lo sa, forse questa cosa sarà venuta anco all'orecchi della moglie, e magari si sarà ripresa per sempre ir su' Peppino, solo a lui, e sempre dalla finestra. Siccome Camilleri non lo dice, piglio un par d'etti di coraggio e lo dico io; è quel che resta, anche questo, di Vienna. Vienna su un divano, mezzo addormentato, con due amici che magari stanno a pensare: ma guarda questo. Viene qui a dormire. E a farsi le docce. Bonanno, cari, grazie d'ogni cosa.

Treno. Madonna come va veloce. Che buio che c'è fuori. Accanto a me, uno che non la smette di telefonare, di telefonare, di telefonare; sapete cosa fo? Mi metto a dormire. Magari sogno d'essere al Prater, o davanti a Schönbrunn; invece mi ritrovo sui marciapiedi della stazione di Firenze. Quante volte, e quante volte ancora. Quante facce. Quante gioie per un arrivo, quante pene per una partenza. Al diavolo. E' un anno nuovo; la vita, magari, non sarà nuova, ma c'è tutto quanto da scriverlo. O da farselo scrivere addosso. O tutte e due le cose assieme, e Vienna è sempre lì.


3 commenti:

Lello Vitello ha detto...

E sarà un nuovo giro di Valzer

Colonnello Walter Kurtz ha detto...

Ciao Riccardo, approfitto di questo tuo bel 'post' per aggiungermi alla lista di quelli che ti hanno augurato un buon 2008 e tante belle cose, la salute e quant'altro.

E, perché no?, un viaggio a Vienna.

Riccardo Venturi ha detto...

Carissimo Colonnello, grazie per gli auguri che ti ricambio di cuore (gli stessi che faccio a Lello...economizzando un po' di spazio). Per ora 'sto 2008 non è cominciato nel modo migliore, per niente; ma, magari, a un pessimo inizio corrisponderà una buona fine. Si dice sempre così, del resto; e la speranza è una delle poche cose rimaste aggràtisse. Chissà per quanto ancora.