mercoledì 30 maggio 2012
La faglia di San Capitale
L'Italia, come si sa, è
terra ballerina.
Fondamentalmente, non esiste nessuna porzione della Penisola che sia
immune da eventi sismici. In Italia si sono avuti terremoti
disastrosi, anche con decine di migliaia di morti; per non nominare i
soliti, e più vicini, ne voglio ricordare uno lontanissimo, e
forse non noto ai più. Il cosiddetto Terremoto della
Rotta del 3 gennaio 1117.
Riportato nella cronaca di Landolfo Iuniore, quel terremoto, che
sconvolse l'intera Italia settentrionale fino alle porte di Pisa, fu
avvertito fino a Reims. L'intera Pianura Padana, da Cividale del
Friuli fino a Pavia, fu rasa al suolo; fu detto della Rotta
perchè cambiò il
corso dell'Adige. Il suo epicentro sembra essere stato a Ronco
all'Adige, presso Verona; e la città di Verona fu tra le più
colpite. La città nel suo aspetto altomedievale fu cancellata;
crollò anche una parte dell'Arena, creandone la forma “ad
ala” che si vede ancora adesso. La Verona romanica fu in massima
parte figlia della ricostruzione dopo quell'evento disastroso; ma
colpite in maniera gravissima furono anche Padova, tutta l'area tra
Piacenza e l'Appennino Tosco-Emiliano, Milano, Pavia, Bergamo,
Treviso, Venezia, Parma, Cremona e Modena. Si
ipotizzano, studiando le cronache ed altre testimonianze documentali
coeve, circa trentamila morti. Si ebbero violentissime scosse di
assestamento per tutto l'anno 1117: il 12 gennaio, il 4 giugno, il 1°
luglio, il 1° ottobre e il 30 dicembre. In tutte le città
colpite si ebbe poi una ricostruzione frenetica, rapidissima; in
definitiva, il Terremoto della Rotta determinò il vero stacco
tra l'alto Medioevo e i periodi successivi in tutta l'Italia del
Nord, fino alla Toscana; stacco che, nelle strutture storiche di
parecchie nostre città, è ancora perfettamente
visibile.
Solo
per dire che dei terremoti come quello del 20 maggio e di oggi, in
Italia, pur essendo naturalmente degli eventi gravi e luttuosi non
sono classificabili tra i maggiori, né per quanto riguarda i
danni, né la quantità delle vittime. Ho 49 anni, e
nell'arco della mia vita, che è ancora breve, ci sono stati i
400 morti del Belice, i 1000 del Friuli, i 3000 dell'Irpinia e i 400
dell'Aquila; oltre a non so quanti terremoti più limitati
(Tuscania, Sicilia sudorientale, Umbria/Marche, San Giuliano di
Puglia...). Potrei fare in tempo a vedere, in Italia, almeno un paio
di altri terremoti veramente catastrofici e cinque o sei come quello
di oggi. Però, quello di oggi almeno una peculiarità ce
l'ha. O forse no. O forse accade sempre così. Chissà.
Riassumiamo.
Il 20 maggio, in una zona definita “poco sismica” (e magari,
quindi, con criteri costruttivi e parametri antisismici, diciamo,
“allentati” rispetto ad altre zone), batte un terremoto che
lascia tutti sbigottiti; figurarsi che, nel 1993, alcuni sismologi
riuniti a convegno in quel di Ferrara avevano ammonito che, il 17
novembre 1570, la città era stata colpita da un sisma
dell'VIII grado Mercalli che la aveva semidistrutta e provocato circa
200 morti e che, quindi, la zona non era affatto
al “riparo storico”, per chiamarlo così. Come in tutti i
terremoti superiori ad una certa magnitudo,
crollano case, chiese, infrastrutture, monumenti; e crollano
capannoni industriali.
La zona, infatti, ne è ricca; ha un tessuto
economico di tutto rispetto, c'è
il polo biomedicale,
si ragiona di fatturati misti a madonne e duomi, di imprese miste a
castelli e torri. La cosa singolare è che come simboli
di tale terremoto (di non eccelsa gravità, torno a dirlo con
il rischio di essere preso per il cinico che non sono affatto)
vengono presi la torre dell'orologio crollata e l'antico castello,
mentre i morti sono quasi tutti nei capannoni venuti giù come
fuscelli. A nessuno, chiaro, verrebbe di prendere un capannone
industriale come “simbolo”; nel capannone si possono fare solo
due cose. Lavorare e crepare. Ci lavorano e ci crepano italiani e
stranieri; bisogna mandare avanti la realtà
economica, basata sul mercato,
sull'imprenditorialità, sulle competenze, sulla qualità,
sulla competizione e sulla competitività. Batte il terremoto,
una domenica mattina alle quattro; e la domenica mattina alle quattro
muoiono degli operai al lavoro. Ma non era il giorno del Signore, la
domenica? Quello del riposo? Che ci stanno a fare delle persone a
lavorare in una fabbrica di qualcosa una domenica mattina ad ore
antelucane?
Eh,
certo. C'è da lavorare anche alle quattro di una domenica
mattina (magari con la solita storia commovente
di quello che sostituiva un collega malato, o qualcosa del genere, e
che quindi è morto al posto suo) perché così si
deve. Perché sennò i cinesi vincono. Perché
sennò i contratti non vengono rispettati. Perché il
mercato è spietato. Perché sennò la produzione
si arresta e sei fottuto. Perché sennò si delocalizza.
Perché sennò la fabbrica chiude, e se chiude si perdono
i posti di lavoro. Un
sacco di perché, però tutti riconducibili a due parole:
società
capitalista. E non
le uso certamente, queste due parole, per fare il solito
sovversivaiuòlo da due blogghi bucati; le uso per una semplice
relazione di causa e di effetto. La società così
strutturata, basata cioè sulla produzione concorrenziale
finalizzata al profitto mediante lo sgobbo “salariato”, ti fa
lavorare anche la domenica alle quattro del mattino. Se poi arriva il
terremoto, baby, sono affari tuoi. Tu chiamala, se vuoi, scalogna
nera.
Qualche
ora dopo, mentre si piange sulle rovine della torre e del castello e
mentre una gru salva la madonna dai calcinacci, l'imperativo non è
mica quello di mettersi un po' al sicuro (vista la quantità di
capannoni crollati e visti, soprattutto, i disgraziati che ci sono
morti dentro) e di aspettare finché tutto non si sia davvero,
prima o poi, calmato; no, bisogna ricominciare subito a lavorare,
produrre, sgobbare, concorrere. Altrimenti è la
fine, specialmente ora che la
società capitalista si sta trastullando col suo divertente
balocchino della “crisi”. Altrimenti gli imprenditori suicidi
superano le vittime del terremoto. Quindi, via con le “verifiche
strutturali” e con l' “agibilità”; e via al lavoro, a
macerie ancora fumanti. Al lavoro col terrore che tutto venga giù,
e mentre continuano scosse e scossettine di assestamento; ma il
terrore di non poter più passare la vita a servire un padrone
è molto, molto più forte. Non si può campare
la famiglia. Non si può
sperare nella famosa “vita migliore”, ottenuta magari arrivando a
Ferrara o a Modena da quello stesso Pakistan o da quella stessa India
dove il padrone sarebbe pronto anche domani a spostare la sua
attività se gli convenisse per la manodopera pagata venti
volte di meno. Non si può alimentare all'infinito il
meccanismo perverso di un intero mondo. Quindi, caro, vai a lavorare.
E subito.
A
questo punto, però, là sotto si prepara un altro bello
scherzetto. Un altro terremoto, a pochi giorni di distanza. Stavolta
un martedì mattina, con le maestranze tutte al lavoro in turno
diurno. E giù capannoni, manco fossero fatti di paglia e
sputo. Crolla la fabbrica delle porte blindate,
perché in questo frangente bisogna blindare tutto, sepolti
nella blindatura della paura e della sicurezza;
crolla la fabbrica dei componenti elettromedicali; crolla ogni cosa.
E stavolta se ne accorgono; qualcuno comincia timidamente a dire che
al lavoro non bisognava tornare affatto, che certe verifiche
sono state fatte un po' troppo in fretta, che un sacco di cose.
Senza, però, andare fino in fondo. Andare fino in fondo
significa rendersi conto che il lavoro la domenica mattina alle
quattro è normale. Tornare al lavoro tre ore dopo un terremoto
è normale. Emigrare dal Pakistan per venire a sgobbare in
fabbrica a San Felice sul Panaro è normale. Morire sotto le
macerie dei capannoni è normalissimo, come lo è morire
nel laminatoio esploso, nella cisterna satura di gas, nel cantiere
edile, nella stiva della nave, nel laboratorio al nero, nel camion
dopo dodici ore di guida senza fermarsi. Tornare a morire sotto le
macerie di altri capannoni è arcinormale. E si ha quindi la
ben precisa sensazione che il terremoto, in fondo, sia il minore dei
colpevoli. Mentre la faglia di San Capitale è sempre in movimento, e di morti ne fa migliaia al giorno.