sabato 12 maggio 2012

Uscire


Brava compagna, bravo compagno.

Dal tuo sito, o blog, o pagina di qualcosa-network ci hai detto e raccontato tutto. Sappiamo ogni cosa di te, dei tuoi sogni, delle tue lotte, dei tuoi slanci, delle tue illusioni e delle tue contraddizioni. Sappiamo tutto della tua storia, del tuo percorso personale e/o collettivo. Sappiamo in che modo non ci sei stato quarant'anni fa, e non ci stai (o, invece, ci stai benissimo) nel tempo presente. Sappiamo come ti sei coinvolto e come ti sei isolato; di come cerchi di partecipare; di come ti poni di fronte all'ingiustizia, allo sfruttamento, alla violenza; per farla breve, sappiamo davvero tutto. Ce lo hai detto tu stesso. Internet ti ha dato uno strumento assolutamente straordinario, un "mondo nuovo" da popolare. E così ti sei gustato la tua "libertà virtuale", dando sfogo alla tua creatività altrimenti repressa, senza quasi mai accorgerti che, in cambio, ti chiedevano una cosa molto semplice: la tua obbedienza reale. 

Hai utilizzato, dici, questi strumenti per comunicare. Non c'è mai stata tanta comunicazione come adesso; talmente tanta, che il risultato è stato lo svuotamento totale del significato. La dittatura, anzi l'autocrazia, del "tempo reale". L'urto continuo delle notizie (che, naturalmente, si aggrovigliano ai tanti te-stessi di cui infarcisci gli eventi: i tuoi "gusti", i tuoi libri, i tuoi cibi, i tuoi amori e odi). Con tutto questo, credi di aver fatto una scelta di campo. Definitiva. Di fronte allo strapotere, dici spesso di "disertare"; è una parola che ami molto. Ti compiaci di disertare da ogni cosa di disertabile, spesso e volentieri facendo ostentata professione di non violenza. Non importa se la Storia ha sempre messo davanti (e continua a farlo) ad un'alternativa netta, senza mezzi termini né appelli: obbedire o ribellarsi. L'obbedienza ha coltivato e diffuso armi micidiali, tra le quali la più subdola ed efficace è quella di far credere di "ribellarsi" in diecimila modi, fondamentalmente innocui seppur giudicati "radicali" a vario livello, per cementare e perpetuare invece l'obbedienza. Non c'è soldatino più obbediente del "disertore" che dice: getto le armi. O bravo. E quando le hai gettate, che fai? La "resistenza"? E a che cosa conduce, questa tua "resistenza", quella che propagandi tanto accoratamente ed a cui inviti in ogni momento dal tuo "spazio virtuale"? Hai visto per caso dei risultati pratici? Hai visto diminuire di una goccia l'obbedienza assoluta che è imposta a noialtri sudditi? Devi, dobbiamo avere il coraggio, finalmente, di dire una cosa. La "resistenza" che crediamo di fare pur chiamandoci fuori si ferma, generalmente, all'uscio di casa (se la si ha). Più in là non va. Non usciamo. Abbiamo preferito diventare tutti gran cittadini del "mondo virtuale"; il quale, sparando "libertà" a dritta e a manca, non ha cessato di rivelare quel che in realtà è: uno strumento di controllo. Sempre tracciabile. Sempre ripercorribile. 

E' ora di uscirvi. E' ora di tornare a rivoltarsi davvero contro l'ordine immutabile. Solo nella rivolta contro l'ordine i sudditi possono realmente cessare di essere tali, e definirsi individui liberi, e dare un senso alle aspirazioni che hanno espresso quotidianamente raccontando al mondo la propria vita, la propria storia, i propri ideali. Una rivolta che deve, in primo luogo, salvarsi dall'essere messa al servizio di chi è preposto a reprimerla. Perché, cara compagna, caro compagno, di questo forse te ne sarai almeno un po' accorto. Poi, per forza che ti pigliano per il culo col "ribellismo", disprezzato con sufficienza nei commenti e negli editoriali più o meno paludati; chi si ribella sul serio, va a finire in galera. E ci va, molto spesso, perché è solo. Perché alle spalle non ha un movimento di solidarietà attivo, numeroso e che abbia ben presente come si stabiliscono e consolidano i rapporti di forza. Chi si ribella seriamente, adesso, ha alle spalle soltanto una pletora di bloggers che non smuovono il culo dalla sedia. Sennò uno, che so io, s'immagina che la Valsusa l'abbiano fatta, e la stiano facendo, a base di siti e Facebook. Li hanno, certo, usati; ma su Facebook non mi sembra che abbiano ancora istituito il bottone Request Rebellion. Ma è meglio non scriverlo troppo, sennò magari il signor Montedizucchero lo fa davvero.

Uscire. E uscire, finalmente, dal "mondo virtuale". Uscire da tutta una serie di logiche, ma uscirne non con una semplice "diserzione" del cazzo. Altrimenti lo Strapotere, con la sua polizia, i suoi carceri, la sua repressione, i suoi ipermercati (in tutte le accezioni del termine), i suoi media, tutto, non sarà (e non è) certo soltanto questione di "banche", di "mercati" e quant'altro. Sarà (ed è) questione, anche e soprattutto, di coloro che dicono tanto di combatterlo. Del "novantanove per cento" che s'indigna a fasi alterne chiedendo "lavoro e futuro", ponendosi così al servizio perfetto dello Strapotere. I sudditi, anche quelli "disertori", anche quelli "ribelli", hanno come scopo quello di apportare dei miglioramenti allo Strapotere, non di distruggerlo. E guai a non rientrare nella "legalità"! Si rimprovera fortemente, anzi, l'uso della violenza. 

Pur trovandoci eternamente in una condizione di violenza. Pur essendo nati e cresciuti in una serie di galere, a partire dalla "famiglia". Allora la violenza la scambiamo per "pace", e in galera non ci accorgiamo più nemmeno di starci. Tutto normale. Condizioni naturali. E, se un bel giorno ci piglia la fregola di non starci più, che cosa facciamo attualmente? Apriamo un blog. Magari lo chiamiamo "Black Blog", che fa tanto figo. In mezzo alle nostre quotidiane ribellioni (invettive, disillusioni ecc.) ci infiliamo peraltro di tutto: dai ricordi della rivoluzione mancata agli aneddoti curiosi, dalle ricette di cucina ai contorcimenti esistenziali, dalle "informazioni" alle solidarietà a lotte generalmente lontane e dalle quali la maggior parte di noi scapperebbero dopo tre minuti. Intanto continuiamo, anche se rifiutiamo di crederci, a far parte del gregge asservito. Allora, se davvero vogliamo ribellarci, dobbiamo uscire. Dobbiamo uscirne. Non significa mica chiudere il proprio beneamato "spazio virtuale", se vogliamo che continui a esistere; significa tornare a stabilire un legame indissolubile tra idea e azione. Per sconfiggere il nemico non è sufficiente dichiarare di non servirlo, non è sufficiente non averci a che fare. Occorre attaccarlo per distruggerlo. E l'attacco deve essere diretto.