lunedì 28 maggio 2012
Una rosa diafana nel giardino dell'Universo
Accingendomi ad un
periodo diverso della mia
vita, che recepisce da un lato la mia peculiare osservazione della
realtà e, dall'altro, l'introspezione che mi sono trovato a
vivere e cercar di scandagliare in questi ultimi tempi, darò
conto di un sogno. I sogni non mentono mai; e non credo che sia un
caso che lo abbia fatto proprio in questi giorni (stanotte, per la
precisione). Ogni anno, la fine del mese di maggio è per me
legata a dei ricordi precisi e non belli; a due fatti avvenuti in
perfetta contemporanea. Il primo è un avvenimento tragico, che
mi vide presente; il secondo è un episodio personale, una
separazione definitiva che muoveva il suo passo proprio mentre ero
presente sul luogo di quel terribile, primo avvenimento. Non ne
parlerò ulteriormente; sia perché l'ho già fatto
in passato, sia perché intendo qui attenermi solo al sogno, ai
suoi elementi e ad alcune considerazioni. Avverto che tale sogno è
stato del tutto neutro; non mi ha lasciato al risveglio, cioè,
alcuna sensazione particolarmente gradevole o particolarmente
sgradevole. È soltanto andato a scavare nei miei recessi più
profondi; di questo mi sono immediatamente reso conto.
Il
sogno che ho fatto ha un'ambientazione comune, persino banale. Il
portone del condominio dove abita mia madre, e dove sono nato. Nelle
sue condizioni attuali; per quel che sono riuscito a percepire, lo
scenario era di oggigiorno (oltre che del tutto realistico, compresa
la strada, le automobili parcheggiate, il numero civico). Era una
tarda sera di una stagione non calda, a giudicare dagli abiti; già
buio, comunque. Il portone a vetri era chiuso, e l'androne
illuminato; i particolari erano del tutto esatti (la guida sulle
scale, le cassette della posta). All'esterno del portone c'ero io
assieme a delle persone presenti nella mia vita attuale (che
chiamerò, d'ora in poi, i “Presenti”): la mia compagna,
quattro amici (due uomini e due donne), una vicina di casa, un
collega, due musicisti, tre frequentatori di un dato luogo che
anch'io frequento, mio fratello e mia madre. All'interno,
nell'androne, dietro il portone a vetri chiusi, c'erano invece delle
persone non più presenti (che chiamerò, d'ora i poi, i
“Passati”); questi ultimi sembravano impegnati in una discussione
molto animata. C'era mio padre, morto, che quasi stava litigando con
un vecchio condomino del palazzo, pure scomparso; nessuno dei due
sembrava essersi accorto della mia presenza. C'erano due ulteriori
vecchi condomini, un uomo e una donna, che sono però entrambi
ancora vivi; c'era un giovanissimo ragazzo ateniese che avevo
conosciuto oltre vent'anni fa, durante una vacanza, senza poi averlo
mai più rivisto; la mia bisnonna materna, che è morta
davanti a me, a tavola, quando avevo cinque anni; e, infine, la mia
vecchia insegnante di greco e latino al liceo. Di questa avrò
a riparlare parecchio; anch'ella non è più di questo
mondo. Di tutti, interni e esterni (compreso me stesso) distinguevo
perfettamente le fattezze, del tutto corrispondenti; e tutti, Passati
e Presenti, erano vestiti in modo assolutamente normale, consueto.
Per “consueto” intendo, ad esempio, che mio padre aveva una
vestaglia rossastra, e piuttosto lisa, che portava spessissimo in
casa; e l'insegnante aveva un pullover color salmone e una gonna
“folk” con cui me la ricordo più che bene.
Mentre
i Passati discutevano, i Presenti (me compreso), all'esterno,
osservavano senza dire una parola. C'erano scambi di sguardi, ora
interrogativi, ora rassegnati. A volte dei gesti, come alzate di
spalle o braccia allargate. Nessuno però mostrava particolare
disagio; per la strada non passava nessuno, ma si scorgevano finestre
illuminate. Tra i Passati, all'interno, mio padre e l'altro vecchio
condomino stavano quasi arrivando alle mani; ma gli altri, pur
continuando a discutere, non facevano nulla per calmarli. Il ragazzo
ateniese sembrava avere un atteggiamento sia di sfida, sia divertito.
Soltanto la mia vecchia insegnante di greco e latino stava da una
parte, discosta, cercando sì di intervenire nella discussione
ma senza troppa convinzione. Della discussione in questione,
all'esterno, si coglieva pochissimo; sia per i vetri che attutivano
il rumore, sia per l'incrociarsi delle voci. Sembrava che il portone
fosse come sigillato.
Ad
un tratto, all'esterno, ho avuto una precisa sensazione; e ho fatto
un'osservazione laconica, rivolgendomi agli altri che non parlavano.
Ho detto: “No, non c'è. Non c'è.” E nel sogno si è
aperta come una finestra. Per “finestra” intendo un ragionamento
collaterale, che mi sono fatto sognando mentre, al tempo stesso,
continuavo a osservare gli eventi. Come fosse un pensiero che, tra me
e me, mi sono fatto in sogno, e del quale conservo un ricordo
perfetto ancora adesso che sto scrivendo. Mentre gli altri
accoglievano la mia osservazione pressoché con indifferenza,
io pensavo ad una determinata persona, della quale avevo notato
l'assenza tra i Passati. Se ne avevo notato l'assenza, significa che
“ci doveva essere”. Questo perché tutti gli anni, attorno
a questo periodo, mi era comparsa in sogno; in varie situazioni, come
protagonista o semplice comparsa, ma c'era sempre stata. Ed è
del tutto naturale, dato che si tratta proprio della persona legata
esattamente a quel periodo, alla dolorosissima separazione che avevo
sperimentato allora. Come se la attendessi; ma non c'era. Il pensiero
onirico si spingeva fino ad una spiegazione data a me stesso: “Non
c'è perché non ci deve essere più. Ci sono
voluti diciannove anni, ma alla fine se n'è andata via. C'è
persino Manos. Da oggi cambia ogni cosa.” Quel pensiero mi lasciava
assolutamente sollevato, e dovevo evidentemente darlo a vedere; le
persone che erano con me all'esterno, i Presenti, formavano attorno a
me una specie di cerchio protettivo. Proprio in quel momento il
portone del condominio si apriva. Sentivo il bisogno di entrare, e lo
facevo canticchiando una vecchia filastrocca inglese, Oh
the cuckoo she's a pretty bird, she sings and she flies...
Nessuno,
compreso mio padre, sembrava notare minimamente la cosa. Continuavano
a discutere. Entrando, mi accorgevo che l'oggetto del contendere era
l'installazione di uno schermo nel garage per guardare le partite di
calcio degli Europei; una delle vecchie condomine si copriva la
faccia con le mani mentre piangeva e diceva: “Ma guarda lì,
ma guarda lì.”. Me ne andavo verso la mia vecchia insegnante
di greco e latino.
Debbo
fare una parentesi. La mia insegnante di greco e latino era quanto
più agli antipodi potesse esistere con il sottoscritto. Lo era
allora quando avevo diciassette o diciott'anni, e lo è
maggiormente adesso. Figlia di un generale piemontese, conservatrice
fino al parossismo, cattolica tradizionalista (addirittura
“lefebvriana”); peraltro, una delle persone che erano con me
all'esterno, nel sogno, cioè uno dei “Presenti”, ci aveva
pure avuto a che fare riportandone sempre espressioni di disgusto, se
non di odio. E avevo presente la cosa anche nel sogno. Con me,
invece, si era instaurato uno stranissimo rapporto. Lei mi
considerava, dicendolo palesemente, un pessimo elemento; arrivò
a definirmi cattivo d'animo. Io la consideravo una fascista e non
perdevo occasione per prenderla per il culo e sfidarla. La variante
era che non lei non si aspettava che un “pessimo elemento” fosse
però uno che nelle sue materie se la cavava più che
egregiamente, e per purissima passione. Adoravo il greco e il latino.
Capace di scrivere “gags” su di lei direttamente in greco, o roba
del genere; rimasta “celebre” al liceo quella che scrissi sulla
sua abitudine di mangiare pane e pomodoro. Alla fine si era
instaurata una specie di stima reciproca, una delle cose più
improbabili che mi siano accadute nella vita (e di cose improbabili,
francamente, me ne sono capitate parecchie). Verso la fine
dell'ultimo anno venne a parlare di filologia classica un laureando,
un giovane che, anni prima, era stato pure suo allievo; mentre
parlava, io cominciai a fare osservazioni qua e là, e su
questioni che non erano propriamente di livello liceale. Il laureando
chiese all'insegnante chi mai io fossi, e le rispose, sottovoce: “Uno
da starci attenti, è bravo ma è peggio della peste
nera, e anche pazzo.” E così via. Sarà stato,
probabilmente, un tipico caso di attrazione degli opposti. Chi lo sa.
Aggiungo che è la prima volta in assoluto che questa persona
mi compare in sogno. E' morta qualche anno fa, mentre abitavo in
Svizzera. A lei debbo, fra le altre cose, il mio interesse per
l'Islanda. Unica cosa che avevamo davvero in comune, erano i gatti.
Ne aveva in casa tre, con dei nomi assurdi. Torniamo al sogno.
Senza
convenevoli. Senza un “come sta”. Ci davamo sempre del lei,
reciprocamente. Gli altri “Passati” continuavano a discutere
ignorandomi, e non me ne stupivo; forse nemmeno di mio padre.
Comincia un dialogo, sottovoce, dentro l'androne del condominio di
mia madre, tra me e lei. Mi fa: “Venturi, cosa ne dice di questo?”
“Ne dico, professoressa, che il tempo non c'è.” “Però
lei è invecchiato parecchio, sa.” “Può darsi, e che
com'è che lei sta qui?” “Sto qui perché mi ci ha
portato lei. La sa una cosa? Noi conteniamo tutto quanto e il suo
opposto. In me c'è una parte di lei, e in lei c'è una
parte di me.” A questo punto, si metteva a sorridere. Io no.
“Allora siamo condannati”, le dicevo. “Non la metta così.
Ci son più cose in terra di quante da capire. Ma lei l'ha
fatta la sua strada?” “La sto facendo.” “Non dev'essere una
strada battuta.” “Non lo so, professoressa. Non lo so. E lei che
strada ha fatto?” “Ho fatto una strada che è come una rosa
diafana nel giardino dell'Universo, e se ne ricordi. Lei è
tutto e il suo contrario. Ha visto che non c'è?” “Ah, l'ha
visto anche lei.” “Sì, sì. Quella che aveva un
vestito, a volte, che sembrava un peplo.” “Me ne ricordo di
questo, una volta glielo disse pure.” “Sono contenta per lei, sa.
Addio.”
Il
sogno finisce qui. E' suonata la sveglia, dovevo prendere un treno e
partire. E' stato uno dei sogni più nitidi che mi è
capitato di fare; nitidi e particolareggiati. Senza la sveglia,
forse, sarebbe continuato; ma non è bene chiedersi a che cosa
avrebbe portato. Doveva terminare lì. E penso che mi abbia
dato delle risposte che cercavo chissà da quanto; avrà
delle conseguenze non da poco. Non saprò forse mai dirne il
perché esatto, ma dentro di me sento, da stamani, maggiore
chiarezza. Maggiore esattezza, arrivo a dire. Lucidità. Senza
né un velo di gioia o di tristezza. Queste le sensazioni
precise lasciatemi; assieme a quella, ancor più netta, che
niente arriva a caso. Una “summa”. Così sarà.