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Lo cercavo, almeno per salutarlo. Sentivo che non lo avrei mai più rivisto, oppure che un nostro eventuale prossimo incontro avrebbe recato con sé un mannello di cose non facilmente dicibili. Sembrava, comunque, tutto normale; la pista, la passerella, il largo bus aeroportuale. Quel che normale non appariva, erano le dimensioni smisurate di quell'aeroporto. Mi ero sforzato di non avere con me che il bagaglio a mano; con la mia piccola borsa da mille occasioni di vita qualunque, j'avais l'air d'un con. E mi canticchiavo la canzoncina di Brassens che fa proprio così, nel ritornello.
Si accesero, all'improvviso, delle luci quasi accecanti. La serata era afosa, senza un filo di vento, e l'unico movimento dell'aria percepibile doveva provenire da qualche stormo di uccelli che resistevano imperterriti ai risucchi degli aerei. Sembrava essersi volatilizzato, quasi fosse volato via assieme a loro; e mi coglieva un'inquietudine sempre sull'orlo di mutarsi in terrore. Le finte allegrie dei miei compagni di viaggio, ignoti e conosciuti, avevano ceduto al silenzio; con le luci accese si vedevano altri aerei, ed altre comitive che venivano istradate verso il loro trapassato. Un bus li raccoglieva, con la dicitura della destinazione; e mi accorsi con qualche fatica che doveva essere il settore dedicato agli italiani e ai francesi. Poco più in là, un gruppo di una cinquantina di persone veniva fatto salire per Daniel Balavoine; altri gruppi che non mi riusciva individuare lasciavano il calpestio di questa terra quotidianamenta maledetta per andare a soddifare un'antico occorrere, che una volta comportava un discendere nell'Ade, e ora un ascendere a qualcosa che s'implorava sommessamente che non fosse.
Non c'era più, no. Si tentava, nel gelo di quell'afa, di pensare a che cosa veramente stessimo a fare. Una voce quasi insensata, non sapevo neppur dire se fosse d'uomo o di donna, parlava del check out. C'era chi s'era portato dei bagagli come se dovesse andare in vacanza, e si preoccupava falsescamente
di ritrovarli regolarmente; voci altoparlanti in un italiano da Berlitz che risultava più incomprensibile dell'inglese che nessuno del resto capiva, dicevano intuitivamente che non ci sarebbe stato nessun
out. Tutto già predisposto. Organizzato.
Don't mourn for me, organize. Una lama secondaria d'una luce fece scorgere, all'improvviso, quel che sembrava una torre senza nessuna fine.
Di fronte ad una visione improvvisa, che pure sai essere la destinazione d'un viaggio (quella per cui hai pagato, quella che hai considerato con insouciance in un piccolo normaldì d'estate nel tuo limitato mondo consueto, il gatto, il computer, la maionese, le bollette da pagare, i tuoi quarantasei anni d'ordinarie avventure), ecco la torre ergersi. Capisci che non è affatto una torre, ché non avrebbe alcun senso. È l'Ascensore Transiente Extracorporeo che si è materializzato, proprio come si materializza un cancro o una vincita di ottanta milioni di euro alla Superlotteria. Non pensi che possa esistere, finché non ti senti tutto addosso. Neanche il vedere: è il sentirselo addosso. Il medico che ti dice “hai questo”, la schedina che ti penetra nei capillari; e la vita cambia. Cambiava la vita, anche in quel momento, per tutti; il pretesto era un tizio che canticchiava canzoni. Dal registratore “Gelosino” che sgranava note e parole in un'adolescenza lontana, fino all'Ascensore per l'Altro Mondo. Non ci sarebbe stato nessun check out, nessun controllo; si trattava soltanto di entrare là dentro. Ci guardavamo tutti. E non c'era molto da attendere; ci vennero incontro gli addetti, quelli che ci erano stati assegnati dalla Supernatural Voyage Inc.
Un uomo alto e magro, che mi sembrava d'aver visto non so dove e non so quando, con un'andatura barcollante ed una curiosa spilla con un numero “69” sul bavero della giacca blu, comunque inappuntabile. Pantaloni grigi, d'alta fattura; su una camicia bianca la cravatta, pure blu, con il logo della SV. Non pareva essere particolarmente a suo agio, seppure nulla in lui fosse fuori posto; profferì un prego, seguitemi, in un italiano venato da un accento che mi risultava vagamente familiare. Lo accompagnava una donna, dai larghi occhi, che teneva in mano un cartello giallo con una scritta nera: FABRIZIO DE ANDRE' GROUP – ITALY.
È lei a prendere l'improvviso la parola, con una voce stranamente querula, dissonante, irridente.
- Adesso farò un appello nominativo. È importante, per favore, che mi rispondiate tutti. L'eventuale assenza di una persona iscritta comporterà l'annullamento del viaggio. Siate precisi, vi prego.
E una sequela di nomi, tra i quali il mio. Mi venivano a mente quali e quante volte ero stato chiamato assieme ad altri, fin dalla scuola elementare, e rivedevo la maestra Marziali con gli occhiali neri, l'eterna nazionale in bocca e l'accento livornese. Rivedevo la visita militare quando un torbido medico militare mi tastava un po' troppo a lungo il mio cazzo di diciottenne. Rivedevo tutto quanto, come fossi in faccia a qualcosa che non si poteva dire e che andavamo peraltro ad incontrare.
- Bene. Ci siete tutti. Presumo che vi siano state spiegate le modalità del viaggio, ma se avete ancora qualcosa da chiedere, vi prego di farlo adesso. Eventuali rinunce sono ammesse fino all'apertura della porta dell'Ascensore. La vostra permanenza durerà esattamente novanta minuti, al termine dei quali dovrete presentarvi, con la nostra assistenza, alla porta di discesa; le conseguenze di un ritardo vi sono già state ampiamente illustrate. Durante l'incontro con Fabrizio De André potrete effettuare domande fermo restando che è facoltà del vostro targiett non rispondere oppure parlare liberamente, a suo piacimento.
Uno, due, tre, dieci, quindici, trenta secondi. Le porte si aprono.
Entriamo senza dire niente, anche se qualcuno, forse per farsi una bizzarra forza, si mette a cantare sottovoce Preghiera in gennaio. Non c'era.
Non c'era neppure fra i nomi chiamati all'appello. Un gruppo di trentacinque persone.
- Mi scusi!
- Prego, signor...
- Venturi. Riccardo Venturi.
- Signor Venturi, le porte sono già aperte. Non può rinunciare, ora.
L'uomo alto e magro mi guarda con un'aria strana. Sembra che voglia dirmi qualcosa senza poterlo fare.
- Signorina, non voglio affatto rinunciare. Però sono certo che manca una persona. C'era con noi un uomo anziano che...
- Signor Venturi, il gruppo risulta al completo. Di quale uomo sta parlando?
- Un uomo anziano, alto, le ripeto. Sedeva accanto a me durante il volo. Era con tutti noi all'imbarco. Non lo vedo più.
- Signor Venturi, probabilmente si sta sbagliando. Conosce il nome di questa persona?
- No. Non mi ha detto come si chiamava...
- La prego, allora, entri e non si preoccupi. Può darsi che lei abbia parlato con qualcuno dell'equipaggio...
- Non era dell'equipaggio. Era un viaggiatore come noi.
- La prego, signor Venturi, entri
- Ma...
- Entri, per favore.
Una mano ossuta mi spinge assieme agli altri. Un'altra mano mi fa cenno di tacere; è quella dell'altro assistente.
(4 - continua)